martedì 8 gennaio 2008

Brother

Kitano Takeshi


“Primo pensiero, miglior pensiero”
detto zen

Brother, primo film diretto, in coproduzione, in America dal gigantesco Takeshi Kitano: storia dell’ascesa e caduta di un gangster giapponese in esilio a Los Angeles che costruisce un effimero impero del crimine, esportando in America (fra malavitosi negri!) la morale yakuza. Brother sposta nel paesaggio americano quel senso di dover seguire il proprio destino e quella specie di leggerezza che ne consegue, che sono temi di tutto il cinema di Kitano. In fondo il protagonista Aniki Yamamoto (“Beat” Takeshi Kitano, faccia di pietra, un piccolo tic minaccioso all’angolo della bocca) è invincibile non solo perché il film mantiene un atteggiamento di gustosa esagerazione sui topoi del cinema di yakuza, ma in primo luogo perché si impegna senza che gli importi di vivere o di morire. Lo annuncia - vera introduzione didattica a uso dello spettatore - l’incontro all’inizio col teppista negro, scena crudelissima ed esilarante (Brother è un capolavoro del tragico e irresistibile umorismo di Kitano): Aniki ci sorprende / ci sconvolge / colpendo senza un attimo di esitazione. “Primo pensiero, miglior pensiero”. Perché c’è nell’intero cinema di Kitano, c’è in tutti i suoi eroi la consapevolezza che il tutto esiste sul ciglio di un immenso nulla. Che nell’essenziale vuotezza e illusorietà delle cose, la cosa più consistente sta nell’inconsistenza: nel momento della gioia passeggera, come tornar bambini su una spiaggia.
Breve digressione. Il mare: in Kitano, l’elemento originario (non sembra inappropriato ricordare qui il substrato mitico shintoista presente, per esempio, in Himatsuri di Mitsuo Yanagimachi). La riva del mare: il luogo della felice regressione, in cui il tempo si blocca (Sonatine) in una sospensione che appunto richiama il tempo magico dell’infanzia: l’unico tempo di felicità in Kitano, si direbbe, non segnata dall’ombra della morte (tant’è vero che un’infanzia privata di questa felicità è un’indegnità, un’ingiustizia da sanare, come ci mostra L’estate di Kikujiro). Vedi, in Brother, la scena semplicissima e stupefacente della buffa partita a basket; non siamo sul mare, ma il concetto è identico. La regressione infantile nel gioco. Infatti più oltre avremo una scena analoga (stavolta il gioco è il football) sulla spiaggia.
Sul grande nulla della contingenza, fanno premio i doveri morali del codice dei samurai: onore, fedeltà, determinazione, calma accettazione della morte (meravigliosamente espressa nella pagina del Libro del samurai che già abbiamo sentito recitare da Forrest Whitaker in Ghost Dog di Jarmusch). L’uomo che si è preparato alla morte la comprende nel senso etimologico della parola: la porta dentro; si può dire che il samurai combatte senza paura di morire perché è già morto.
Tale in Brother è il discorso fatto davanti alla tazza di sakè sacro nel rito di un’iniziazione yakuza, che il film comprende in dettaglio: la yakuza ha formalmente adottato e implicitamente parodiato l’etica samurai; Kitano - come mostra in termini assai chiari Sonatine - non si fa illusioni su questa deformazione (pure essa facente parte dello svuotamento dell’identità giapponese che il regista descrive nei suoi film), ma ne fa lo sfondo per il suo cinema. Tutti i film di Kitano sono un essere-per-la-morte. Si ha l’impressione che i suoi eroi che seguono impassibili il proprio destino si muovano in un universo dove tutto è già scritto. Kitano non ha neanche bisogno di adottare la voce narrante over, come nel noir americano dei ’40/’50, per suggerire l’ineluttabilità. E’ questa accettazione, e non solo il riallacciarsi a una tradizione recitativa giapponese classica, che si scolpisce nella sua maschera impassibile. Kitano dipinge come pochi quel magnifico momento in cui dopo la furia della lotta si accetta la morte, per un’eleganza morale che cela l’indifferenza che cela un’immensa stanchezza.
Perché il film mantiene - come sempre in Kitano, che è uno dei grandi pittori dello schermo - una concezione visuale addirittura calligrafica? Così in Brother la stessa bellezza compresa nell’inquadratura in dettaglio, come casuale, di un bicchiere di succo di frutta giallo accanto a una lattina usata come portacenere su un tavolino possono averla i fori delle pallottole che si formano su una porta. Perché la bellezza si cristallizza per un attimo, come la luce accecante ed effimera di un fulmine, nel flusso ininterrotto delle cose. La morte è solo un avvenimento, uno stadio, un passaggio dell’ininterrotta trasformazione. Ecco allora che il lampo della bellezza, esso stesso transeunte, ci guida alla comprensione.

(Nickelodeon)

Nessun commento: