martedì 8 gennaio 2008

Lina

Danilo Koren

Dei due lungometraggi, prodotti in parte con il finanziamento regionale, proiettati fuori concorso in apertura della 7° Mostre dal Cine Furlan - “Lina” di Danilo Koren e “Il tierç lion” di Manlio Roseano - non v’è dubbio che quello interessante è il primo: un film certamente imperfetto ma che per valori narrativi e linguistici sta due spanne sopra “Il tierç lion” - che è un esempio di incapacità, certo involontariamente divertente (vuoi per la logica delirante della sceneggiatura, vuoi per la piattezza del linguaggio, che dovrebbe essere cinematografico ma è irreparabilmente televisivo, da miniserie con Virna Lisi).
“Lina” non si raccomanda solo per un uso abile della macchina da presa e un montaggio convincente. Un aspetto positivo del film è il modo sciolto in cui porta avanti il racconto grazie a una scelta narrativa basata sull’ellissi e sull’implicito. E’ sintomatico che manchi una definizione precisa dei due progetti edilizi contrapposti: la protagonista Giuliana, figlia di famiglia danarosa, contro tutto e tutti si oppone a una speculazione edilizia capeggiata dal fratello e tesa alla distruzione del “vecchio” che il progetto di lei vuole conservare. Quest’accenno di indeterminatezza evita quel tocco di pedanteria didattica che si potrebbe temere dall’argomento.
Anche giovandosi di un attore vigoroso come Massimo Somaglino, che porta un tocco d’ironia alla figura del fidanzato implicato nella speculazione, il film lancia uno sguardo satirico sul mondo del “business” di questi affaristi mezzo rampanti mezzo magliari, con le loro ritualità gastronomiche del vino e della grappa (“Italian whisky!”). Il difetto più grave mi sembra una certa mancanza di definizione della psicologia della protagonista, che appare alquanto monocorde. Vero è che anche questo può rientrare nella caratterizzazione di Giuliana come una che “si tiene dentro le cose” e che i nemici amano far passare per mezza matta.
L’aspetto più evidente di “Lina” è una seconda dimensione interlineata al realismo del “racconto primo” - caratterizzata visivamente con colori incongrui, acidi, irreali, solarizzati - che è quella del soggettivo: la fantasia, il sogno, l’incubo, la memoria individuale e quella storica, la leggenda, la fiaba. In verità questi aspetti di irrealismo a volte un po’ gridati mi sembrano meno necessari di quanto presupponga il regista. Forse è più singolare, come sguardo “trasformato”, la realtà stessa quando il film si dilata quasi in un “a parte” semidocumentaristico sul carnevale (un “a parte” anche nel bel commento musicale di Claudio Cojaniz). Tuttavia essi aiutano il racconto ad allontanarsi dall’apologo didattico e soprattutto si legano bene a quella narrazione nervosa, tesa a trovare l’elemento base negli umori, nei sottintesi, negli episodi minimi, nei gesti, che è il merito del film.
In questa seconda dimensione del vedere/del narrare rientra il passato. “Lina” getta un ponte fra l’oggi e il ieri partendo dal dato di fatto dei lussuosi costumi sfoggiati nelle rievocazioni storiche, ma poi proiettandosi in una dimensione fantastica (dove gioca abilmente sull’anacronismo). E’ questo l’asse portante del film, che scava su quanto del passato sia rimasto - non residuo ma forza viva - nell’inconscio friulano (o, dice il regista, europeo). E “non buttare giù il vecchio”, la missione - fallita - della protagonista, è anche la morale della pellicola.
Di questa morale è una specie di incarnazione la Lina del titolo, che (ecco l’aspetto del film che m’è piaciuto di più) si rivela solo alla fine: la vecchia contadina che canta, alla quale la protagonista sembra ricorrere nel finale aperto come per abbeverarsi: una specie di antica forza, come l’acqua corrente del fiume, che mi sembra essere un motivo ritornante di “Lina”. Ed è bello come il suo canto e il suo parlato proseguono, un autentico fluire, sul nero dei titoli di coda.

(Il Nuovo FVG)

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