martedì 8 gennaio 2008

La vendetta di Carter

Stephen Kay

E’ bello - serve a ricordarci che i personaggi spariscono ma gli attori no - quando gli interpreti di un vecchio film tornano a distanza di anni, in parti di supporto grandi o piccole, nel remake. Così il grande Michael Caine, che nel 1971 aveva interpretato “Get Carter” (in Italia “Carter”) di Mike Hodges, riappare ora nel remake di Stephen Kay dallo stesso titolo, in Italia “La vendetta di Carter”, in una parte minore di mellifluo mascalzone opposto al protagonista Sylvester Stallone. In verità, del resto, si può dire che l’unico vantaggio di questo film deludente è l’opportunità che ci offre di rivedere alcuni visi cui siamo affezionati, come l’indimenticato eroe di “Rambo” e “Rocky”, qui con baffi e barba, e Michael Caine, appunto, e Mickey Rourke (c’è anche Miranda Richardson in una particina).
Perché si tratta di un “noir” fondamentalmente piatto, che né sa rivoluzionare ironicamente il racconto e i personaggi (come ha fatto di recente Gore Verbinski nel sottovalutato e piacevolissimo “The Mexican”) né al contrario sa mantenersi su un tono classico come si intuisce vorrebbe fare. Rimane una storia carente di atmosfera, nonostante le possibilità, popolata di personaggi stereotipati (le scene peggiori sono quelle di Carter con la nipote), che si affida tutto all’“allure” cupa e minacciosa di Stallone, piccolo gangster in rotta contro tutto il mondo per vendicare l’assassinio del fratello. Uno scambio di battute, nella sua elementarietà, arriva a ricordarci il cuore del cinema, quando Michael Caine, che vuole solo distogliere Carter dall’indagine, sussurra carezzevole “La vendetta non serve” e Stallone replica con tranquilla sicurezza “Certo che serve”: al di là del singolo film, questo è il concetto base per cui amiamo tanto il cinema americano - il concetto che almeno sullo schermo, contro le delusioni della vita e della legge (in Italia poi...), la giustizia esiste, e se non col nome di legge, col nome appunto di vendetta; chi si merita una pallottola l’avrà.
Sylvester Stallone non è mai stato un grande attore, ma certo un attore di grande carisma. Qui, invecchiato, il viso gonfio, si muove con una pesantezza da vecchio leone; quella sua recitazione quasi sonnambulistica, un po’ alla Mitchum, che gli ha sempre dato una misteriosa solennità disperata, è sfruttata al massimo: il suo Carter è “l’uomo che sa”, come muoversi e come battersi, e dà l’impressione di scivolare maestosamente in mezzo a uno sciame di potenti mascalzoni come un’orca tra le foche. Il film però posa troppo pesantemente su questa situazione, replicando incessantemente situazioni di sfida “naso contro naso” e dialoghi super-macho pronunciati con l’appropriato tono funereo.
Anche il montaggio studia di essere macho e duro come i personaggi del film; a volte la sua ricerca di vivacità scade in qualcosa di vicino alla confusione, come nell’inseguimento in auto principale (peccato, perché in questa sequenza è intelligente e grazioso il dettaglio contrapposto dei giovani che si allenano a qualche disciplina orientale su uno spiazzo). In generale, per dare un po’ di sangue al film il regista Stephen Kay cerca una ostentata modernità di stile - macchina da presa enfaticamente mossa, angolature estremistiche, rovesciamenti totali dell’immagine, finte soggettive (come quando Carter è stato steso a terra da un pugno) - che, oltre al fatto di non avere più molto di nuovo, qui lascia piuttosto freddi. Per non dire che a volte arriva a danneggiare il film invece che rinforzarlo: per esempio il confronto fra Carter e il suo ex amico in ascensore è una delle scene migliori del film, col bel particolare della signora preoccupata e la musica natalizia, ma è rovinata da un paio di pesanti visualizzazioni immaginarie degli sviluppi possibili. Del resto, anche la ridicola accelerazione dell’auto in partenza che chiude il film - vorrebbe essere un climax retorico, e vien fuori un’immagine buffa! - è un esempio del modo di lavorare troppo ampolloso di Stephen Kay.

(Il Nuovo FVG)

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