martedì 8 gennaio 2008

Elizabeth

Shekhar Kapur

C’è chi addirittura lo ha scambiato per un esordiente, ma con “Elizabeth” il regista indiano Shekhar Kapur è solo al suo primo film inglese per lingua e produzione, e non è certo il primo venuto nel vasto panorama semisconosciuto del cinema del suo paese. Dei suoi film realizzati in India, uno ha raggiunto una certa notorietà anche da noi, benché solo come notizia (per cui il vostro recensore si dispiace di non averlo potuto vedere): “Bandit Queen”, un colorato melodramma biografico su una donna-bandito indiana dei nostri giorni.
In modo non dissimile si potrebbe definire il concitato “Elizabeth”, che racconta l’ascesa al trono e gli inizi del regno di Elisabetta d’Inghilterra. Anche se è un film inglese sceneggiato da un inglese (Michael Hirst), difficile non intuire, davanti alla sua vivacità affabulatoria e alla sua enfasi narrativa, l’individualità e (se ci si passa il termine) la lussureggiante ”indianitudine” del regista. “Elizabeth” è un vigoroso racconto popolare, caldo e violento. Basta, per convincere, il forte inizio con gli eretici bruciati - una splendida inquadratura “a piombo” dall’alto sembra risucchiare verso di sé le fiamme del rogo - e la tetra corte di Maria la Sanguinaria (Maria Tudor, per i suoi seguaci Maria la Cattolica), che la bella interpretazione di Kathy Burke rende umanamente drammatica.
Il pericolo di questi film in costume è sempre di finire in una levigatezza televisiva, come quelli, piacevoli ma accademici, di Charles Jarrott (nel cui “Maria Stuarda, regina di Scozia”, per inciso, Elisabetta era Glenda Jackson). Il film di Kapur combatte il rischio dell’accademismo con una regia enfatica, dinamica. Un montaggio nervoso, dagli stacchi drammatici, “eccessivi”. Angolature di ripresa espressive, fino al barocco (vedi l’inquadratura rovesciata nella scena della tortura).
Nella notevole fotografia di Remi Adefarasin fa spicco l’uso del colore, dai toni volutamente non brillanti (che negli abiti delle dame di corte con la loro patina metallica ricordano in qualche modo gli anni quaranta). Ai neri foschi e tragici della corte di Maria Tudor si contrappongono i lampi di abbagliante controluce bianco connotanti il potere di Elisabetta: vedi le esplosive dissolvenze in bianco quando ella apprende di essere diventata regina. E da questa luce bianca del potere emerge nella scena finale Elisabetta la Grande, il viso trasformato in una maschera di gesso bianco sotto i capelli rossi, rassegnata a trasformarsi in una icona mistica per il suo popolo che sostituisca la Vergine Maria (“Sono diventata una vergine”, dice tristemente tra sé. Non per nulla la scena del taglio dei capelli ricorda le monacazioni).
La narrazione - nervosa, gridata, ricca di ellissi - ritrova le movenze appassionate del feuilleton. Stagliati da un’illuminazione marcata, i volti dei protagonisti si imprimono con un’evidenza di personaggio teatrale: il cupo cospiratore cattolico Norfolk, il raggelato protettore-sicario Walsingham, la disperata Maria Tudor, il mefistofelico ambasciatore di Spagna, l’innamorato deluso Joseph Fiennes, gli spiritosi francesi Fanny Ardant e Vincent Cassel. Com’è giusto, tutti recitano appena a un filo dalla gigioneria. Solo Richard Attenborough - il quale come attore è solo di poco migliore che come regista - è onesto e monocorde (Sir John Gielgud, il Papa, apparirà in tutto per un minuto, ma ciò non gl’impedisce di mostrare più forza di lui).
Quanto alla protagonista, l’australiana Cate Blanchett si è trovata di fronte a una parte da far tremare i polsi, se pensiamo al corteo di grandi attrici - da Bette Davis in giù - che l’ha preceduta nel filone di uno dei periodi storici più utilizzati dal cinema (pensate che “The Execution of Mary Queen of Scots”, di Edison, data al 1895!). Accetta la sfida e con intelligenza, convinzione, sincerità e un filo di humour ci consegna un’Elisabetta viva e credibile, ben degna di trovare posto in questa galleria.

(Il Nuovo FVG)

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