sabato 12 gennaio 2008

Windtalkers

John Woo

La reazione un po’ fredda di alcuni critici al magnifico “Windtalkers” dimostra che certa gente non è capace di riconoscere John Woo se non vede le colombe bianche. “Windtalkers” - ove per la prima volta il grande regista hongkonghese affronta direttamente il film di guerra - è la quintessenza della moralità e dei temi di Woo, e anzi, il miglior film del suo periodo americano dopo il capolavoro “Face/Off”.
Seconda guerra mondiale: l’esercito usa i soldati Navajo come marconisti perché il loro dialetto è incomprensibile ai decodificatori giapponesi. Ogni Navajo è affidato a un veterano bianco incaricato di proteggerlo - ma anche, segretamente, di ucciderlo piuttosto che venga catturato dai nemici. A Nicolas Cage, ossessionato dal fatto di aver portato al massacro la sua pattuglia e dalla maledizione che gli ha lanciato un soldato morente, viene affidato il giovane Navajo Yahzee (Adam Beach). Di qui la sua disperazione. Sarebbe troppo facile se fossero ordini ingiusti: è proprio nella contraddizione fra due esigenze morali corrette (quella del rapporto umano e quella di proteggere il segreto salvando così molti soldati) che si crea il dramma morale.
Nulla di esclusivamente orientale; siamo nella tradizione del cinema americano; ma benché la sceneggiatura - di John Rice e Joe Batter - non sia di Woo (che peraltro è fra i produttori esecutivi), il regista hongkonghese ne ha fatto un film assolutamente proprio. A parte le sue deliranti prime commedie (che ha il merito di averci fatto conoscere il Far East Film), tutta la carriera di John Woo è una intensa e dolorosa riflessione sul concetto di “yi”, ossia del codice d’onore cameratesco fra uomini, al quale il tradimento dell’amicizia è la più profonda lesione. In “Windtalkers” Woo riporta tutte le problematiche del suo cinema: l’amicizia, il dovere, la colpa, l’assoluzione, la salvezza. Riporta il suo simbolismo (la ferita all’orecchio di cui soffre Cage allude all’intero film) e la ricorrenza della religione. Anche qui, niente di orientale nella sceneggiatura; il personaggio di Cage è di origine italiana, ed è anche per accordarlo con l’interprete (che, si sa, di vero nome fa Coppola), ma ciò può connotare una mediterranea religiosità. Tuttavia, è nota l’importanza dell’iconografia religiosa all’interno del simbolismo di Woo; e ha un sapore incredibilmente wooiano la scena in cui Cage disegna col dito una cattedrale su un tavolo ricoperto di farina e poi d’un colpo la spazza via.
“Windtalkers” è intessuto dell’enfasi mai gratuita di Woo, e le stupende scene di battaglia vi dispiegano quell’estremismo narrativo del “rapid fire” e della potenza di fuoco che contribuisce a render grandi i suoi film hongkonghesi (in questa concezione estrema dello scontro a fuoco è interessante riconoscere l’influenza di Sergio Leone e del western italiano). Woo mostra la guerra nel suo aspetto più crudo (rari registi hanno mostrato la precarietà dell’esistenza del soldato con altrettanta forza), come ha fatto di recente Ridley Scott in “Black Hawk Down”: ma con un’importante differenza. Scott descrive un macello e basta; Woo descrivendo questo macello pone una riflessione etica sui rapporti virili - e paradossalmente in questo il regista hongkonghese è più vicino al cinema americano classico del suo collega occidentale.
Rapporto col cinema americano classico dichiarato già nell’apparizione di Monument Valley, la terra dei Navajos, all’inizio e alla fine. Inevitabile pensare a John Ford. Non è solo una questione di “location”; la bella inquadratura iniziale del bambino in primo piano con la bandiera americana alle spalle è fordiana, addirittura citazionista, se non nella concreta immagine, nello spirito; e di Ford c’è molto in tutto il film.
Woo ha saputo unire una messa in scena di sanguinoso realismo con quell’intensità della commozione (di cui è segno distintivo la lacrima che scorre sul viso, classica nel cinema hongkonghese) e con quella dolorosa solennità quasi rituale che oggi sono davvero troppo rare nel cinema americano.

(Il Nuovo FVG)

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