sabato 12 gennaio 2008

Mission: Impossible II

John Woo

La visione del bellissimo “Mission: Impossible II” di John Woo (che però nella carriera americana del regista non raggiunge il livello del capolavoro “Face/Off”) risponde al quesito ch’era inevitabile porsi: film di John Woo o film di Robert Towne, che firma l’ultima versione della sceneggiatura? Quale che sia stato l’apporto del regista hongkonghese allo “script”, “Mission: Impossible II” è compiutamente suo.
La differenza con Brian De Palma, autore del primo “Mission: Impossible”, è evidente. All’ossessione depalmiana sulla comprensibilità del reale, Woo sostituisce il suo cinema fatto di ritmi cinetici la cui stessa perfezione li porta verso l’astratto. Ritmi che non negano ma esaltano il gioco wooiano dei sentimenti elementari: l’amicizia, l’onore, la fedeltà, la vendetta (più l’amore, messo in causa dallo sviluppo di Tom Cruise che come Cary Grant nell’hitchcockiano “Notorious” deve spingere la donna che ama nel letto di un altro). Basta un dettaglio minimo come la mano del malvagio Sean (Dougray Scott) che scatta inquietante ad afferrare la sciarpa di Thandie Newton che il vento faceva volar via, per vedere la grandezza di John Woo: che non sovrappone dall’esterno i sentimenti all’azione, bensì nell’azione li rende veri. Anche la stilizzata solennità wooiana degli scontri a fuoco non è mero spirito coreografico; è il tema ricorrente del dovere - comprendente il dovere della vendetta - solennizzato nel suo compimento.
Detto in una parola, John Woo è la purezza del cinema: in “Mission: Impossible II” si ha l’impressione che il pur eccellente montaggio non riesca neppure sempre a stargli dietro. Il suo ritmo vibrante. L’uso magistrale del sonoro. Le sue “slow motion”, che non si limitano alle sparatorie: vedi per esempio lo stupendo scambio di sguardi fra Tom Cruise e Thandie Newton al primo incontro, esaltato dal ralenti della gonna della ballerina fra i due. La giustezza classica dell’inquadratura: come non ricordare un paio di memorabili primissimi piani di Thandie Newton, il bel viso solo al centro dello schermo panoramico, su uno sfondo neutro (ma è davvero neutro? O scompare perché abbiamo occhi solo per la bellezza di lei?): inquadratura semplicissima, ma che Woo sembra inventare da zero.
Sul piano del racconto, possiamo dire che la classica situazione del tradimento fa parte della mitologia base di “Mission: Impossible”, dopo il primo film; allo stesso titolo che una scena del film presente - l’entrata di Cruise dall’elicottero nel grattacielo - riprende la vera immagine/simbolo di “Mission: Impossibile”, la discesa in verticale in lotta contro il tempo; tuttavia il tema del tradimento trova molte rispondenze nell’universo cinematografico di John Woo, coi suoi codici di onore e fedeltà (il concetto cinese di “yi”, al quale i dolorosi cavalieri erranti wooiani subordinano la loro vita). Merita anche osservare che l’importanza delle maschere lungo tutto “Mission: Impossible II”, oltre che dare una bella opportunità di variare la gamma dell’interpretazione a Tom Cruise, richiama fortemente quell’ossessione dell’identità che, già presente nel cinema di Woo, era emersa in primo piano col citato “Face/Off”.
Tutta la prima parte del film è puro James Bond, anzi, è James Bond come da anni lo sognavamo. In seguito - annunciato dalla classica sparatoria alla John Woo, con le due pistole in mano e lo sparo in scivolata - il film si sviluppa nella più classica iconografia wooiana, come quei piccioni in volo nelle sparatorie che sono un marchio del suo cinema (superba l’apparizione di Tom Cruise, nel vano di una porta fra le fiamme, preceduto da una colomba bianca!). E lo scontro finale si sposta sempre più verso l’astrazione tipica del cinema di Woo, fino a raggiungere, nell’ultima fase, l’estremismo eroico wooiano e hongkonghese: ossia, del cinema più bello del mondo.

(Il Nuovo FVG)

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