sabato 12 gennaio 2008

Il gioco dei rubini

Boaz Yakin

Il caso ha voluto che i primi film americani approdati qui dopo la lunga siccità estiva avrebbero potuto anche restarsene oltreoceano. Non val neanche la pena di discutere di quell’autentico metro cubo di letame cinematografico che è l’orrendo “Waterboy” di Frank Coraci, ma anche “Il gioco dei rubini” di Boaz Yakin, pur situandosi senza sforzo un gradino più su, non è certo roba da fare i salti. Scritto e diretto dall’indipendente newyorchese Yakin, il film sembra una commedia di Woody Allen presa sul serio e messa in scena come dramma; non solo per l’ambientazione ebraica ma anche perché è un cavallo di battaglia di Woody la parodia della pretenziosità in arte; e qui di pretenziosità ne avete a sacchi.
Sia nel primo film di Yakin, “Fresh”, storia di un ragazzo negro di Brooklyn che si sforza di uscire dalla logica del ghetto, sia ne “Il gioco dei rubini” troviamo un personaggio entro una società chiusa che cerca di rompere il suo rigido sistema di regole; qui si tratta di una donna sposata fra gli ebrei fondamentalisti di New York. E sarebbe pure interessante, questo sguardo dentro il mondo semisconosciuto dell’ebraismo hassidico americano, se “Il gioco dei rubini” non fosse un fallimento artistico. Tutto in questo film ambizioso e inconcludente, pieno di significati iper-pompati di quelli che si scrivono con la maiuscola, è scoperto, evidente, “telegrafato”. Mentre vedi il film senti pesantemente il cervello dell’autore al lavoro: vedi girare gli ingranaggi della macchina narrativa, intuisci quel “retro” drammaturgico che dovrebbe rimanere nascosto.
Scene piatte e telegrafate, di un piccolo realismo dimostrativo che ricorda i “tv movies”, sono appesantite da ricorrenti soprassalti di un tono para-poetico. Boaz Yakin vuole troppo, e lo vuole in un film solo. “Il gioco dei rubini” aspira insieme ad essere uno sguardo realistico e critico su una microcultura, a narrare il percorso psicologico di una liberazione interiore e ad impreziosirlo con (micidiali) divagazioni poetiche e simboliche: non bastasse il fantasma/allucinazione/ricordo/spirito guida del fratellino morto annegato, ci voleva anche una barbona di New York che al contempo è l’incarnazione di una specie di versione femminile dell’Ebreo Errante, mitica parente della protagonista.
Alcuni rari tocchi di flebile umorismo non alleviano la pesantezza del film, mentre arrivano a renderlo ancora più imbarazzante dei momenti di comicità involontaria; un po’ per un montaggio grossolanamente effettistico (la discreta scena del vecchio rabbino che bacia sua moglie parlandole d’amore viene rovinata da un violento stacco sul suo funerale, che sembra introdurre un doppio senso osceno), un po’ per una caratterizzazione troppo evidentemente “mirata” dei personaggi. Quale impulso diabolico ha spinto Boaz Yakin a dare quel ridicolo tocco di sadismo, da mega-villain di celluloide, al cognato carogna che si sbatte la protagonista? Sto pensando alla scena in cui, ancora steso su di lei dopo l’adulterio, le recita un brano della Bibbia sulla donna esemplare, per umiliarla. Lei risponde con una tirata femminista, ma come personaggio è psicologicamente assai meno determinata di quanto il regista-sceneggiatore s’illuda. La sua psicologia è nebulosa, perché in questo film tutto è nebuloso, indeterminato, e userei la parola allusivo, se non fosse pel fatto che, se l’allusione non arriva a alludere, che allusione è?
Quando sentiamo un dialogo con profondità filosofiche come “Io non so neanche dove il mio corpo finisce e la mia anima inizia” (lo dice lei al rabbino; e segue uno strano discorso sul fatto che lei ha sempre molto caldo), vien da pensare che un remake di questo film con Edwige Fenech come protagonista, Alvaro Vitali nella parte del marito e Lino Banfi in quella del cognato carogna sarebbe senza dubbio più divertente; con molte probabilità più intelligente; e forse più commovente pure.

(Il Nuovo FVG)

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