martedì 8 gennaio 2008

Viaggio a Kandahar

Mohsen Makhmalbaf

Il burqa - il vestito-sacco con una grata per gli occhi che la barbarie afghana impone alle donne - è il vero protagonista di “Viaggio a Kandahar” di Mohsen Makhmalbaf. E’ sotto questa veste/simbolo che si cela Nafas (Niloufar Pazira, interprete di se stessa in questa ch’è in pratica una storia vera): un’afghana fuggita in Canada, giornalista, che dall’Iran torna clandestinamente in Afghanistan per dissuadere la sorella che vuole uccidersi. Sotto il burqa è una non persona. E’ la situazione delle donne afghane, chiamate “teste nere”, ridotte all’inesistenza, trasformate in anonime sagome ambulanti, spettri colorati; ove il nocciolo della privazione, insiste il film, è la privazione dello sguardo. Tutto quello che hanno è la speranza di potere un giorno essere “viste” (e di speranza parla tutto il film, dal grande discorso iniziale alle bambine afghane che rientrano nel paese fino alla incerta registrazione del dottore per la sorella di Nafas).
Al centro del film di Makhmalbaf, raffinato e complesso sotto l’apparente semplicità realistica, c’è appunto lo sguardo. Il burqa si frappone tra l’occhio e il mondo - in entrambi i sensi; e il contrasto è che Nafas è una giornalista, cioè un occhio. Ce lo ricorda anche l’apertura in soggettiva dall’elicottero, con lo sguardo che va libero a volo d’uccello sulle montagne nude del confine. Makhmalbaf ci dà più volte l’inquadratura elegante dell’ombra-luce a forma di farfalla che il sole disegna sugli occhi attraverso la grata di stoffa del burqa, quando esso viene sollevato sopra il viso. Ma significativamente soltanto alla fine vedremo quella soggettiva da dietro la grata del burqa che lo spettatore si aspetta fin dall’inizio (attraverso quel graticcio visuale, un paesaggio deformato e rossastro sembra essere la città di Kandahar): “...mi sono sempre ribellata alla gabbia di divieti che imprigiona le donne afghane - e ora ritorno volontariamente in questa gabbia. Lo faccio solo per te, sorella mia”.
Per tutto il film Nafas parla in un registratore portatile, raccoglie parole e suoni, come il canto del bambino che le fa da guida, che facciano vivere la sorella. Ma in realtà vediamo due atti di registrazione nel film. Uno è quello della voce di lei nel registratore, “on screen” oppure off, che almeno una volta interviene anche nel dialogo in un raffinato “a parte”: voce diegetica di lei che registra, voce del pensiero, voce della memoria si fondono.
Ma c’è anche l’invisibile attività registrante dell’occhio di Nafas. Per questo lei non fa altro che alzarsi il burqa (evidenza dei suoi occhi grigiazzurri!) mentre le altre donne o sono voci da dentro questo sacco o non sono mostrate che nell’atto di calarselo. Nafas scruta intorno, si appropria, conosce, analizza, giudica. Quando ci parla dell’Afghanistan come luogo della guerra perpetua, “cane contro cane, uccello contro uccello, uomo contro uomo”, le sue parole non fiorite hanno una drammaticità shakespeariana.
Così “Viaggio a Kandahar” è un film-saggio sull’Afghanistan, una radiografia, in una narrazione libera e mutevole alla stessa stregua che i capricci del destino determinano il viaggio di Nafas. Di qui, scene didattiche nel senso alto della parola, splendidamente narrate: la lezione alle bambine sui giocattoli-mina, la lezione del mullah ai bambini-talebani nella scuola coranica, la visita medica alla donna fatta attraverso un portavoce e scrutandone occhi e bocca attraverso un buco nella tenda, e naturalmente la grande pagina dei mutilati. Qui si esprime al massimo lo spirito barocco di Makhmalbaf: l’immagine famosa delle protesi paracadutate, gambe disincarnate che scendono dal cielo, e il grottesco balletto della corsa dei mutilati sulle loro stampelle, e la stupefacente sineddoche barocca dell’uomo che prova il burqa e le scarpe della moglie a un paio di protesi che per un attimo l’inquadratura trasforma in una persona. Non è, tutto questo, “surrealismo” compiaciuto e artificioso alla Fellini. E’ la realtà oggettiva che diviene sur/realtà: il barocco non è una vernice estrinseca ma sta nell’orrore delle cose.

(Il Nuovo FVG)

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