martedì 8 gennaio 2008

Mickey Occhi Blu

Kelly Makin

“Il principe Carlo qua...”, dice sprezzante il killer mafioso Johnny riferendosi a Hugh Grant, banditore d’aste britannico trapiantato in America: il quale, nella commedia “Mickey Occhi Blu” di Kelly Makin, fidanzandosi con la riluttante Gina (Jeanne Tripplehorn) si ritrova imparentato a sorpresa coi mafiosi di New York. L’allusione è naturalmente all’accento inglese di Hugh Grant, accento del quale Sua Altezza Reale è per via giornalistica il campione ufficiale presso gl’incolti americani (curiosamente, anche la prostituta con cui Hugh Grant ebbe il famoso scandalo dichiarò ai giornali che quello sconosciuto cliente le era risultato simpatico perché “parlava come il principe Carlo”). E quella battuta del film ci ricorda quanto sarebbe stato meglio poterlo vedere in lingua originale coi sottotitoli (d’altronde, ciò vale per tutti quanti i film...). Pensiamo alla scena in auto dove il mafioso James Caan cerca disperatamente di insegnare d’urgenza a parlare in stile italo-siculo-mafioso al futuro genero, che deve fingersi di origine siciliana anche lui (donde il soprannome del titolo). Nella versione doppiata, noi semplicemente vediamo il gentile e un po’ compassato Grant imitare la mimica facciale siciliana del labbro e del mento, e gli esce di bocca un bofonchio vagamente siciliano, per la disperazione di Caan. Moderatamente divertente; certo l’originale lo è molto di più, potendo giocare per tutto il film sulla tripla diversità degli accenti, inglese, americano standard e italoamericano.
Un “alieno”, in senso etnico, che deve fingersi siciliano e mafioso? Scherzi sull’accento italoamericano da imitare? E Joe Viterelli nella parte di guardaspalle mafioso? Non è difficile accorgersi della fonte d’ispirazione più prossima del film (non diciamo il modello tout court, giacché il “mafia movie”, nelle sue forme del dramma e della commedia, è un vero semi-genere americano). Tuttavia il modesto “Mickey Occhi Blu” non ha nulla dell’intelligente comicità di “Terapia e pallottole” di Harold Ramis. Alquanto spompato fin dall’inizio, il film di Hugh Grant non va oltre un certo divertimento epidermico: ogni tanto spuntano la battutina o la situazione divertente (come nella scenetta con la padrona del ristorante cinese), ma nel complesso, niente di che. Anche nella descrizione del rapporto di Hugh Grant colla sua nuova famiglia, il momento più gustoso del film - quando lui equivoca sul termine “ammazzamenti” e, conscio dell’ambiente, ne tenta un’imbarazzata difesa scandalizzando tutti - resta senza un seguito alla stessa altezza.
Se la commedia, mai sgradevole, è piuttosto fiacca, forse gli sceneggiatori avrebbero potuto calcare sul pedale romantico, il che rientrerebbe pure nelle corde del sempre simpatico Grant. Lo rende impossibile la caratterizzazione piatta, di spessore televisivo, della protagonista femminile, che in “Mickey Occhi Blu” finisce per risultare più che altro una lagnosa rompiscatole. Jeanne Tripplehorn non è capace di dare al personaggio di Gina né gli sprazzi da comedy che ben sarebbero possibili né, al contrario, un sottotono di autentica drammaticità.
James Caan, il padre della sposa, vanta antichi galloni in fatto di interpretazione della mafia; basta pensare a “il Padrino”. Dignitoso e corretto, comunque non ha l’ombra dello humour mimetico di De Niro. Va anche detto che stavolta troviamo qualcosa di meccanico nel suo agitare le braccia gesticolando “all’italiana”: più che un attore che fa un mafioso, sembra un attore che fa un attore che fa un mafioso. La vera perla del film è semmai l’ottimo Burt Young nella parte di “Zio Vito”, il pericoloso capo della famiglia mafiosa. Forse la migliore interpretazione dell’attore, spassosa e insieme impressionante, col viso chiuso in un’impressione di raggelata ferocia; tutto quel che ricorderemo di “Mickey Occhi Blu”, è lui.

(Il Nuovo FVG)

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