martedì 8 gennaio 2008

La sottile linea rossa

Terrence Malick

Recita in apertura de “La sottile linea rossa” la voce fuori campo: “Cos’è questa guerra stipata nel cuore della natura? Perché la natura lotta contro se stessa? Perché la terra combatte contro il mare?”. Echi shakespeariani (“La natura lotta contro se stessa”), e infatti a Shakespeare e alla preziosa oratoria dei suoi “a parte” ci fa pensare il maestoso film di Terrence Malick, al di là del suo realismo fisico. “La sottile linea rossa” è un intreccio di storie/di volti nella battaglia di Guadalcanal, scandito da ampli interventi della voce interiore del personaggi. Interessante metterlo a confronto con l’altro capolavoro bellico della stagione, “Salvate il soldato Ryan” di Steven Spielberg. Il potente classicismo di Spielberg si muove entro la dimensione del “mostrare”, nella miglior tradizione del cinema americano. Ora, anche “La sottile linea rossa” è un film di estremo realismo che descrive la paura e la morte (degli americani e dei giapponesi) in immagini memorabili. Ma su questo si innesta la presenza ritornante e quasi opprimente di queste voci interiori di orrore, preghiera, domanda, che lo spostano in una dimensione quasi metafisica, solenne, mesta e meditabonda. Spielberg ci mostra la guerra, orizzontalmente, nel suo farsi, Malick ci mostra l’incidere della guerra sull’anima. La grandezza del cinema quantitativamente ridotto e prezioso di Terrence Malick è appunto il modo in cui sa elaborare, e mantenere, un attento e minuzioso realismo per trasfonderlo su un piano semifantastico attraverso l’apertura alla soggettività.
L’aspetto più radicale del film è il linguaggio di queste voci (Malick è anche sceneggiatore del romanzo di James Jones, che mi spiace di non avere ancora letto per verificarne l’attribuzione). In discrasia col realismo dei dialoghi, con le sue determinazioni sociologico/descrittive, le voci interiori parlano un linguaggio “alto”, di densità letteraria, che dà al film la sua natura (uso il termine nell’accezione più positiva possibile) declamatoria. Essa ha turbato più d’un “bonhomme”, ma inutilmente: è il vero cuore, il carattere, il perno della pellicola
Solitamente al cinema il pensiero del personaggio - materializzato dalla voce off, o per essere più precisi della voce over - è caratterizzato sociologicamente e stilisticamente nelle stesse forme del suo parlato. Ma - detto in termini schematici - quello che le voci over de “La sottile linea rossa” concretizzano non è un “pensare” ma un “sentire”. Malick, di cui sono noti gli interessi filosofici, comprende che esiste una differenza fondamentale tra il minimalismo della nostra espressione, anche interiore, e il massimalismo del nostro “sentire” inespresso. Il realismo pertiene al linguaggio della bocca e della lingua. Malick in queste voci over parla il linguaggio dell’anima. Ovviamente nel film esso mantiene un legame col personaggio: e tuttavia è sufficiente per trasportarlo in una dimensione espressiva propria. Per esempio: perfino un elemento strettamente diegetico come la lettera della moglie che chiede il divorzio rientra in questo tono oratorio (“O compagno di tutti quegli anni splendenti, aiutami a lasciarti”).
Nella sua descrizione allucinata della guerra, la disperazione assoluta di Terrence Malick ha bisogno di esplorare le voci dell’anima, per esprimere una irreconciliabilità radicale fra l’uomo e la natura. Caratteristicamente per l’autore, “La sottile linea rossa” è intessuto di inquadrature in dettaglio del mondo naturale, simili alle potenti inquadrature di piante e di insetti de “I giorni del cielo”. La bellezza della natura - Malick è sempre stato uno dei registi americani che meglio hanno saputo esprimerla in rapporto al racconto - si distende in dialettica dolorosa col dramma umano: un’irraggiungibilità, un non-dialogo fra due ordini diversi; e su tutto, il dubbio incessante di un dolore intrinseco allo stesso ordine naturale. Ma le ultime parole del film sono: “Tutto risplende”.

(Il Nuovo FVG)

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