martedì 8 gennaio 2008

Chicago

Rob Marshall

Tempus redit! Torna il musical? Invero questo splendido genere cinematografico era già rispuntato due anni fa, ma col baraccone autocompiaciuto di “Moulin Rouge!” di Baz Luhrmann. Ora invece un musical classico quale lo stupendo “Chicago” di Rob Marshall fa saltare il banco negli States, con 13 nominations all’Oscar, ed ha successo anche in Italia.
E’ l’ironica storia di Roxie Hart, moglie infedele col sogno di diventare una star di Broadway, che uccide l’amante - un cialtrone che se lo meritava - e per sfuggire alla forca trasforma il suo processo in uno show mediatico. “In questa città l’omicidio è una forma di intrattenimento”, dice il suo avvocato. “Chicago” si potrebbe definire un musical in soggettiva. Nel senso che il meraviglioso irrealismo dei musical, ove di punto in bianco i personaggi si mettono a cantare e ballare, qui viene in minor parte riportato al palcoscenico ma per la maggior parte è interiore: è duplicazione, trascrizione in chiave di musical entro la mente dei personaggi: i sogni e i desideri, le sensazioni, l’illustrazione metaforica del discorso. Specie di Roxie, che vive nella fantasia il ruolo negatole nella realtà. Soggettiva, dunque: poiché accanto alla soggettiva ottica il cinema contempla quella che per intenderci chiameremo soggettiva morale, quando la macchina da presa ci porta all’interno dell’interiorità del personaggio (una categoria dell’immagine, questa, tanto più importante oggi che il racconto cinematografico tende a svincolarsi sempre più spesso dall’oggettività della narrazione).
Ciò comporta in “Chicago” un affascinante dialogo fra il realismo ironico della messa in scena narrativa e la delirante astrazione della scenografia teatrale. Instabili incroci, magnificamente gestiti dalla regia. Vedi per fare un solo esempio la pagina straziante dell’esecuzione della detenuta Lenski, dove l’insostenibilità dell’impiccagione è amplificata dal sarcasmo poetico della sua trascrizione fantastica in un numero di magia.
Qui sta la grandezza del film prima ancora che nello humour dello svolgimento, nella bellezza delle canzoni, nella messa in scena dei numeri musicali. Perché in primo luogo “Chicago” è grandissimo spettacolo. L’ispirazione deriva direttamente dal defunto Bob Fosse, l’ultimo dei giganti del musical (“Cabaret”, “All That Jazz”), che lo mise in scena a Broadway nel 1975 (l’origine remota è una commedia del 1926 ispirata a un fatto di cronaca). Basta vedere nelle coreografie questi gruppi statuario-mortuari, scorticati vivi da luci colorate; queste danze meccanico-isteriche dove di Fosse ritroviamo l’espressionismo ritradotto attraverso Broadway; basta semplicemente vedere l’ombra di Liza Minnelli che, vero gioco di specchi, si cela sotto il caschetto alla Louise Books esibito qui da Catherine Zeta-Jones.
Dialoghi e canzoni sono spiritosi come in una “screwball comedy” del passato (c’è una rinfrescante essenza di classicità rinnovata in questo film). I numeri da menzionare sarebbero tanti, dal “Tango del sole a scacchi” al balletto dell’avvocato-ventriloquo coi giornalisti-marionette, alla caustica trascrizione del processo in stile Broadway, al tip tap finale di Richard Gere. Eccezionale il gruppo in scena: Renée Zellweger nel ruolo di protagonista, con accanto Catherine Zeta-Jones in gustosissimo dialogo, e un sorprendente Richard Gere. Accanto al trio protagonista, ottimi Queen Latifah e John C. Reilly, anche nei loro “a solo” musicali: rispettivamente la canzone di Big Mama e “Mister Cellophane”.
Mi piace vedere in “Chicago”, al di sotto dello stimolo satirico e in dialogo con esso, un principio di autoaffermazione, di violenza nietzschiana, che si materializza come testo nel “Tango del sole a scacchi” delle assassine in prigione (refrain: “Se l’è cercata / Se l’è voluta / La colpa è tutta sua”) - e come effetto nell’atteggiamento dello spettatore, che non può non parteggiare spudoratamente per queste simpaticissime (e cattivissime) assassine.

(Il Nuovo FVG)

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