martedì 8 gennaio 2008

Vajont

Renzo Martinelli

E’ bene che si parli, e si riparli, e poi si torni a parlare, del disastro del Vajont. Una catastrofe, come suol dirsi, annunciata; una porcata politico-industriale (sì, politica, per omesso controllo, servilismo verso la potente SADE, complicità morale e materiale) senza fine. Duemila morti per cui nessuno ha pagato seriamente (l’ingegner Biadene non fece che un anno di carcere - e grazie che almeno un altro dei responsabili ebbe il buon gusto di suicidarsi). Su questo non ci piove; e in tal senso anche un brutto film può servire, al pari di un mediocre romanzo, o di un quadro ch’è una crosta. Peccato, però: ché se fosse un buon film sarebbe assai meglio.
Non è il caso di “Vajont” di Renzo Martinelli, già autore dell’orribile “Porzus”. Il primo problema del film è di ordine stilistico (attenzione! Lo stile è una questione di morale. Ce lo hanno insegnato i grandi critici/registi francesi). “Vajont” indispone già dall’inizio. Apertura nel cimitero, cromaticamente raffinata, un grigio cinereo. Un personaggio di cui non vediamo il viso cammina fra le tombe e in mano ha una rosa - e di che colore è la rosa? Bianca! E’ puro spot. Ci si aspetta che l’inquadratura stringa sul polso ed entri la pubblicità di un orologio.
Martinelli sa girare, certo. Fatto sta, ha una mentalità spottistica che salta fuori, irrefrenabile, prepotente; non sa resistere a metterci l’immagine enfatica. La Veronica (nella scena della processione in paese) sbattuta in faccia alla macchina da presa. Quel terribile crocifisso strasimbolico che galleggia sull’acqua durante lo sgombero delle case.
Dice: ma cosa c’è di male se tutto il film venisse interamente girato in stile videoclip? Rivette non sarebbe d’accordo - ma non dico di no. Tuttavia in “Vajont” la questione è proprio del contrasto dei linguaggi. Il film sbanda fra un racconto visibilmente ancorato alla tradizione (pesantemente) didattica del cinema “civile” italiano e improvvise sottolineature “hip” da clip, come un’inquadratura a piombo del portone della SADE a Venezia, che denunciano la voglia di eleganza leccata. Spiacevolmente oscillante e squilibrato, è un film dal quale non sai mai cosa aspettarti: un film stilisticamente pencolante. E sorvoliamo sulla musica opprimente con le sue spaventevoli immissioni di canto...
Ma almeno convince sul piano narrativo? No: dialoghi implausibili (“L’altro giorno c’era un articolo sul Gazzettino e lo definiva come il numero uno” - ma si parla così in un bar?), comportamenti anacronistici, recitazione da filodrammatica, salvo naturalmente quando entrano in scena i grandi vecchi professionisti, Serrault, Gullotta, Auteuil, Leroy. Il peggio del peggio è la figura della giornalista Tina Merlin, resa da Laura Morante come una macchietta televisiva che parla a mitraglia, una delle interpretazioni più infelici di tutta la storia recente del cinema italiano. Sarebbe stata più convincente Valeria Marini.
La vera Tina Merlin - che aveva 37 anni all’epoca del disastro, e scriveva dal 1951 - non era la graziosa squinzia logorroica che vediamo in “Vajont”. Era (e si vede dalle foto) una “montanara testa dura”, come la definisce Marco Paolini nel suo splendido “Vajont 9 ottobre ‘63” teatrale: quello sì una cronaca concreta, alta e dolente della tragedia. Nonché chiara: fa capire gli eventi molto più chiaramente il testo teatrale di Paolini e Vacis (oltre ad essere più stringente sulle responsabilità politiche: fa i nomi) che non il film.
Beninteso, il film contiene qualche momento efficace. Assai buona, in particolare, la notte di impaurita attesa prima della catastrofe; mentre il disastro stesso, tutto sommato, non è che lasci una grande impressione (anche qui Paolini vince 10 a zero, con la sola risorsa della voce). Non è una questione di soldi - la storia del cinema anche italiano è piena di chi fa molto col poco - ma di forza narrativa.
“Repetita iuvant”: è bene che si parli, e si riparli, e poi si torni a parlare, del disastro del Vajont. Ma se lo facesse un buon film sarebbe assai meglio.

(Il Nuovo FVG)

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