martedì 8 gennaio 2008

The Acid House

Paul McGuigan

Non ho letto i racconti di Irvine Welsh, sceneggiatore e nume tutelare di “The Acid House” di Paul McGuigan, tratto dalla raccolta omonima. Ma se Welsh scrittore assomiglia a Welsh sceneggiatore, è una sòla, come dicono a Roma. Per inciso, la menzione di Roma non è gratuita, giacché come accenti il doppiaggio del film sembra abbia deciso di tradurre direttamente l’inglese in romano.
Il modesto “The Acid House” consta di tre episodi, ambientati nella Scozia urbana povera. Nel primo Dio trasforma uno sfigato in mosca; nel secondo uno sfigato si fa portar via da un teppista la moglie di non specchiata virtù e poi quando lei, incinta, è mollata si lascia convincere a riprenderla; nel terzo le anime di uno sfigato in overdose e di un neonato che sta nascendo si ritrovano scambiate di corpo.
Anche il triplo impiego del termine “sfigato” in questo resumé non è gratuito. Non dissimile dal precedente (e migliore) lavoro di Welsh “Trainspotting”, “The Acid House” si collega a quel naturalismo sottoproletario inglese post-Loach di cui un esempio è “Niente per bocca” di Gary Oldman, ma ne concretizza manieristicamente una specie di sottogenere basato su un’ambigua fascinazione per gli sfigati totali: non nel senso della sfortuna ma della mediocrità. Poveri deficienti afasici, autentici “Untermenschen” che si sbattono nel deserto del degrado urbano portando a spasso le loro vuote facce foruncolose e la loro abulia. Finisce che i personaggi più ragionevoli e simpatici del film risultano quelli che nel suo rigido sistema ideologico sarebbero i cattivi.
La caratteristica dei tre protagonisti di “The Acid House” è appunto la debolezza. Uno, maltrattato da tutti, è definito un debole anche da sua madre; un altro - cui la fidanzata mollandolo dice “Non mi va di passare la vita con un imbecille” - fa schifo perfino a Dio, il quale peraltro è complessato fino al punto di riconoscersi in lui, e proprio per questo lo odia e - come sappiamo - lo trasforma in mosca. Questa invenzione, comprendente una vendetta piuttosto oscura dello sfigato-fatto-insetto sui suoi persecutori, è anche piuttosto divertente. Come sempre nel film, il meglio sono alcune notazioni di contorno (le abitudini sessuali degli anziani genitori). Il terzo episodio, quello dello scambio di anime, è il peggiore dei tre; non solo per la modestia della trovata (sembra un “Senti chi parla” in salsa sottoproletaria) ma anche per la miseria della realizzazione: non puoi aspirare a un realismo “urlato” in tutto il film e poi usare un bambolotto fintissimo, che produce un vero anticlimax.
Nel complesso “The Acid House” è una dolorosa saga della bruttezza - dolorosa nelle intenzioni, ma che non convince, suona insincera, con quel suo cinismo di maniera. Volete mettere un Ken Loach? La coppia Welsh-McGuigan non trova, nel ritrarre i suoi personaggi, né il distacco del comico né la commozione del realistico. La scelta grottesca non salva nulla: i canoni naturalistici del “tremendismo” sottoproletario non riescono a sollevarsi attraverso l’aggancio al surreale come accadeva in “Trainspotting”. Anzi, direi che il migliore dei tre episodi è il secondo, il più realistico: sia perché è il meno presuntuoso sia perché è il più asciutto sul piano narrativo, nonostante un paio di concessioni al patetico che stridono coll’impianto generale.
Il problema del film è che è lento, impacciato, strascinato, piuttosto tedioso. Per esprimerci alla Welsh, diremo che ha tempi morti e gonfi come cani annegati. La sua difficoltà coi tempi lunghi deve avere un rapporto col fatto che il regista McGuigan trova la propria dimensione solo quando si avvicina al videoclip, come vediamo ogni volta che entra la musica. La sua sensibilità coloristica e d’inquadratura è tutta clip (vedi la scena con la madre nel secondo episodio); e questo fa pensare che, con una sceneggiatura diversa, si potrebbe tirar fuori qualcosa da lui.

(Il Nuovo FVG)

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