martedì 8 gennaio 2008

American Beauty

Sam Mendes

Sono i petali rossi di rosa l’elemento ritornante di “American Beauty”, in varie apparizioni reali (i vasi di rose, macchia rossa nelle ben composte inquadrature) o metaforiche (il sogno sessuale del protagonista). Quel loro rosso attraversa il film; e lo richiamano la porta rossa prima della tragedia e poi il rosso del sangue quando la tragedia pendente si concretizzerà.
Vero intrico di tragedie pendenti, “American Beauty” è ossessivamente attraversato da una sensazione di minaccia. Introdotto dalla voce di un morto che racconta la sua storia, come “Viale del tramonto”, il film è una parodia amara e sarcastica dell’american way of life sotto la cronaca della rivolta dell’“everyman” Lester/Kevin Spacey che non ne può più dello spento matrimonio con Carolyn/Annette Bening, della famiglia, del lavoro; perde la testa per la giovanissima Angela e manda tutto all’aria.
“American Beauty”. In un primo senso è Angela, la bellezza americana, ironica descrizione della classica “teenage vamp”. In senso più lato e sarcastico, è la vita americana degli “arrivati”. Ma in un terzo senso, e definitivo, così come ce lo consegna il discorso del narratore morto, la vera American Beauty è la morte. Non necessariamente nel senso spietato di “Viale del tramonto”: è, la morte, la riscoperta della bellezza presente nelle cose e nelle persone; quella bellezza che il film ci mostra incarnata - tocco un po’ troppo consapevole ma non errato - nel filmato, girato da un personaggio, di un sacchetto di carta agitato dal vento, che diventa una magnifica astratta composizione in bianco rosso e grigio.
L’aspetto più interessante dell’esordiente Sam Mendes è la sua libertà di linguaggio cinematografico, ben servito dalla splendida fotografia di Conrad L. Hall. Penso all’uso della metafora, come quella dei petali di rosa nelle fantasie sessuali di Lester: il nevicare di petali su di lui, Angela nuda ricoperta di petali rossi, la vasca da bagno con petali sull’acqua, e perfino - dettaglio geniale - il petalo che Lester si toglie di bocca dopo un bacio. Quest’uso metaforico dell’immagine è proprio del linguaggio degli spot pubblicitari (dal punto di vista strettamente visivo, il più avanzato che ci sia). La sua essenza è naturalmente la concentrazione del significato. Ma nella pubblicità tale concentrazione ha un significato poetico (che è naturale se pensiamo che la pubblicità non racconta una storia, illustra un desiderio); Sam Mendes la trasferisce dalla poesia alla narrazione.
I suoi riferimenti si possono ritrovare in David Lynch; ne troviamo la traccia già nell’amore per le inquadrature frontali e simmetriche, arcaizzanti e stranianti; e la definizione dei personaggi che li trasforma in figure inquietanti (memorabili i due mostri femminili cui Annette Bening cerca di vendere la casa con piscina) li avvicina a quelli di “Twin Peaks”. Poi, per alcuni aspetti, in Tim Burton: il quartiere ripreso dall’elicottero, con le case tutte uguali, pur essendo realistico non è molto lontano da quello di “Edward mani di forbice”, e l’incontro dei due giovani nel viale con un funerale contiene una malinconia molto burtoniana. E anche in Gus Van Sant (il movimento di macchina finale, che per la prima volta allarga la visuale all’orizzonte, ricorda per concezione se non per significato la conclusione del suo remake di “Psycho”).
Rispetto a questi grandi nomi “American Beauty” denuncia un difetto non irrilevante: fa sentire troppo la costruzione drammaturgica, tradendo perfino un certo spirito didattico nell’esplicazione del “messaggio” (cfr. il discorso ricorrente del “come siamo diventati”). In questo aspetto troppo calcolato rientra la “pruderie” americanissima del mancato rapporto sessuale con Angela. Tuttavia, l’eccesso di consapevolezza della sceneggiatura è recuperato discretamente sul piano narrativo e ottimamente sul piano del linguaggio. Morale, Sam Mendes è un talento da seguire.

(Il Nuovo FVG)

Nessun commento: