venerdì 4 gennaio 2008

Vero come la finzione

Marc Forster

C’è un film comico degli anni ‘90 (“Fatal Instinct” di Carl Reiner) dove i protagonisti, quando su una scena romantica aleggia la classica musica di violino, s’interrompono e si mettono a cercare chi suona - finché trovano un nano violinista nascosto in un armadio. Giustamente il pubblico ride: perché al cinema la musica d’accompagnamento è per definizione extradiegetica, cioè non appartiene alla trama, quindi i personaggi non la sentono. Tutti ricorderanno anche una superba gag in proposito di Mel Brooks in “Alta tensione”.
Un’identica situazione di estraneità allo “hic et nunc” della messa in scena esiste, naturalmente, per quella voce over disincarnata che viene chiamata (non sempre propriamente) voce narrante. Ma ecco che, nella commedia “Vero come la finzione” di Marc Forster, il grigio agente delle tasse Harold Crick (Will Ferrell) tutt’a un tratto comincia a sentire nell’aria proprio la voce disincarnata di una scrittrice che descrive la vita d’un suo personaggio; solo che quel personaggio è lui, e la voce descrive esattamente quello che lui sta facendo; e per di più anticipa all’ipotetico lettore la sua prossima morte.
Il film (scritto da Zach Helm) sfrutta al massimo l’affascinante paradosso di questa voce narrante che è contemporaneamente interna ed esterna alla diegesi, tracciando il dramma tragicomico di una creatura che scopre - pirandellianamente - di essere allo stesso tempo un uomo come tutti e una creazione letteraria; per di più, condannata a morte sotto i tasti della macchina da scrivere dell’autrice Kay Eiffel (un’ottima Emma Thompson, la migliore del cast), che è famosa per far morire tutti i protagonisti dei suoi romanzi. L’aspetto più divertente della stravagante trama si ha quando il protagonista si rivolge per aiuto a un professore universitario, il professor Hilbert (Dustin Hoffman), gustosissimo quando cerca di identificare sul piano stilistico-narrativo l’autrice misteriosa o introduce lo sconvolto Crick alle regole della trama e alle complessità narratologiche dell’“Had I but known”. “Vero come la finzione”abbonda di riferimenti colti piuttosto inusuali per la produzione americana (persino Italo Calvino fa la sua comparsa in una citazione di Hilbert, e gli appunti della lezione sulla lavagna alle spalle del professore si riferiscono al “Quartetto di Alessandria” di Lawrence Durrell), trasformando il suo pazzesco spunto in una riflessione sulla scrittura e la necessità, la scelta e la morte.
Fin qui tutto bene; l’idea base su cui perigliosamente si fonda il film è molto intelligente. Di sicuro, divertirà particolarmente chi s’interessi alla narratologia: costui vedrà qui realizzati i suoi sogni (incubi?) e godrà il film come una delirante dimostrazione di concetti teorici che si incarnano in un corpo vivente (chi volesse saperlo, la disgrazia capitata a Harold Crick si chiama metalessi - ovvero, trasgressione della soglia di incorniciamento). Ma sarà altrettanto gradevole per gli spettatori tutti, che potranno apprezzare l’abile gestione di una situazione paradossale.
Il problema è che “Vero come la finzione” è più intelligente che umanamente buffo o commovente o artisticamente rilevante. Utilizza un’idea bellissima, ma non sa corredarla con un’adeguata piacevolezza dei personaggi in termini di caratterizzazione, né con una loro brillantezza di dialogo. In altri termini, la realizzazione è geniale unicamente per quanto attiene al concetto di partenza; per il resto denuncia una certa freddezza. Vi sono dei buoni momenti, come quando Crick legge tutto il dattiloscritto del romanzo in un interminabile giro in bus, ma in generale la commedia non trova sufficiente spessore umano (fa eccezione il personaggio della scrittrice), ed è proprio per questo che pencola verso il politically correct (i protagonisti sembrano il Mulino Bianco, con quel loro mangiucchiare angelici latte e biscotti - verrebbe voglia di vedergli in mano una birra e uno spinello, alla “Easy Rider”).

(Il Nuovo FVG)

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