venerdì 4 gennaio 2008

Intrigo a Berlino

Steven Soderbergh

Nel 1993 Derek Jarman girò il capolavoro “Blue”: sul dialogo over di quattro voci, lo schermo è d’un blu uniforme per tutto il film. E’ un esempio di cinema estremo – ossia non replicabile: se un altro regista avesse poi girato allo stesso modo un “Red”, sarebbe stata un’assurdità.
Bizzarramente, lo stesso si può dire per “Intrigo a Berlino” di Steven Soderbergh. Perché Soderbergh (regista e produttore, nonché, sotto pseudonimo, direttore della fotografia e montatore) nel girare questo racconto - che si svolge nella Berlino 1945 appena conquistata - non si limita a usare il bianco/nero ma trasforma il film in una replica tendenzialmente assoluta dei film noir anni ’40, in linea con l’estetica postmoderna del “true fake”. Il citazionismo elevato a riproduzione totale! Realizza così un film pieno di fascino – ma che ha il fascino, appunto, dell’“unicum”. In questo senso, è cinema estremo quasi quanto quello di Jarman.
Soderbergh ha realizzato una fotografia d’epoca usando le vecchie lampade a incandescenza (donde quella foto così contrastata), apparentemente nel vecchio formato 1.66:1 (in realtà il film è girato nel moderno formato 1.85:1 ma con bande nere ai lati), e ha registrato il suono con la “giraffa” come una volta. Ci sono bellissimi passaggi di montaggio pseudo-classico, come nella scena in cui Jake (Gorge Clooney) incontra Lena (Cate Blanchett) e riconosce la sua antica amante. Tipicamente, il film abbonda di tendine laterali come segno d’interpunzione e di “trasparenti” (quei filmati che venivano proiettati dietro gli attori per fingere gli esterni nelle scene girate in studio). Soderbergh ruba direttamente alcune scene ai vecchi classici; per esempio, quella al nightclub, anche se mancano le sciabolate di un riflettore espressionista, ricorda “Scandalo internazionale” di Billy Wilder (1948); la scena di Lena nelle fogne di Berlino viene da “Il terzo uomo” di Carol Reed (1949); e ovviamente il finale è un rifacimento di “Casablanca” (Michael Curtiz, 1942).
Un punto di forza è l’eccellente “score” di Thomas Newman che imita perfettamente un commento musicale di allora, con la sua minuziosa amplificazione dei singoli passaggi del racconto. E la recitazione di Cate Blanchett fa meravigliosamente “anni ’40”, con quella testa gettata all’indietro, fra Marlene Dietrich e Greta Garbo. Naturalmente però non è solo la presenza degli attori d’oggi a svelare la finzione, bensì molti aspetti di recitazione, e il realismo contemporaneo nei dialoghi, e una breve nudità. Questo è voluto: il film instaura una dialettica fra l’impianto imitativo e una contemporaneità che non è solo conoscenza dello spettatore ma è insita nel dispositivo.
“Intrigo a Berlino” è dominato dal cinismo, il romanticismo e la disperazione tipici del film noir. Di quel genere ritroviamo nel dialogo il tono tragico, gnomico, quasi teatrale; è poi tipico dei vecchi noir l’uso della voce narrante, che serve a dare loro quell’impronta fatale. In realtà nel presente film il regime della narrazione “over” non corrisponde veramente a quello del noir classico, ma non importa, perché entra come segno di se stesso, pura enunciazione.
Ovviamente la storia si articola sui “topoi” del genere, come il concetto di un passato rimosso che preme per ritornare (il segreto della fabbrica nazista). Se ironicamente il protagonista George Clooney non fa che prender botte per tutto il film, questa è un’estremizzazione dell’eroe perdente tipico del noir (in collegamento con la sua sconfitta finale). E quando Lena dice tristemente “Non si va mai veramente via da Berlino”, esprime quella trasformazione dell’ambiente noir nel nero dell’anima che giace al fondo del genere.
“Intrigo a Berlino” è una celebrazione del film noir attraverso l’evidenziazione dei suoi meccanismi narrativi e del suo orizzonte morale. Irripetibile, dicevamo - e di conseguenza, un fiore di serra. Ma che rientra perfettamente nell’estetica variata, estremistica, e non sempre vincente, di Steven Soderbergh.

(Il Nuovo FVG)

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