Larry Charles
Intorno al 1770, scrive con polemica ironia Augustin Cochin ne “Lo spirito del giacobinismo”, non c’è autore che non faccia appello agli occhi vergini del selvaggio/dell’ingenuo, “che non cominci la revisione delle leggi e delle usanze del suo paese in compagnia del suo cinese o del suo irochese di fiducia”.
“Borat - Studio culturale sull’America a beneficio della gloriosa nazione del Kazakistan” (il sottotitolo italiano non ha le sgrammaticature di quello inglese) è il rovesciamento parodico di quell’impostazione. Borat - reporter kazako supercafone dall’inglese comicamente scorretto, ultra-antifemminista, ultra-antisemita, figlio di un paese barbarico - è stato inventato da Sacha Baron Cohen per il suo programma tv “Da Ali G Show”; nei suoi panni Cohen, che è ebreo, satiricamente reagisce con approvazioni e abbracci entusiastici alle opinioni più razziste degli intervistati. Il film è un “mockumentary”: un falso documentario della tv kazaka che segue Borat nel suo viaggio per esplorare la progredita America e per rapire Pamela Anderson seguendo l’uso kazako del “sacco nuziale”.
Il principio base è quello della “candid camera” - vera o taroccata (un’ambiguità connaturata ad essa); molti che compaiono nel film si sono detti ingannati, come i due vecchietti ebrei del B&B (è credibile) o gli studenti universitari (assai meno). Lo sboccatissimo Borat verbalizza l’indicibile: va dall’armaiolo a comprare una pistola “per difendersi da ebrei”, compra un’auto e chiede al venditore quanto forte può andare per investire zingari senza danni alla carrozzeria. Quelli abbozzano, ed è un misto di adesione, servilismo verso il cliente e buona educazione intesa come un far finta di nulla: è divertente qui notare come la stupida moraluccia americana dell’“I am OK, you are OK”, madre dell’obbrobrio del “politically correct”, abbia finito per ritorcersi esattamente contro se stessa.
Pertanto nel film invece chi una differenza si celebra un’uguaglianza. Borat è il truzzo allo stato puro (in albergo crede che l’ascensore sia già la sua camera ed è felice: “molto stanza cazzuta questa!”), ma con gli interlocutori americani agisce da catalizzatore, e li rivela truzzi quanto lui. Come quando fa amicizia con un gruppo di studenti universitari: le loro opinioni sulle donne coincidono perfettamente. Così questo “road movie” con telecamera a mano diventa un “Blair Witch Project” dell’inciviltà, e una satira ghignante dell’America. Gli anfitrioni di Borat a una cena “bene” nel Sud non si formalizzano quando lui, dopo essersi fatto indicare il bagno, ritorna coi suoi escrementi in un sacchetto di plastica chiedendo educatamente dove metterli; però quando si presenta a cena accompagnato da una prostituta negra, lo buttano fuori e chiamano la polizia. O la grande pagina del raduno “estatico” dei pentecostali: tanto più comico perché è tutto vero! “Borat” mette in scena il Kazakistan come categoria dello spirito. Peggio che “De te fabula narratur”: è un “Omnes kazaki sunt”. Detto agli americani, certo, ma abbiamo dubbi che dipenda solo dal punto geografico? Provate a immaginarvi Borat a Roma!
Ancor più divertente è un altro aspetto. Sacha Baron Cohen ha dotato il suo Borat di precisi connotati biografici, e il film concretizza questo background, già espresso in televisione, mettendo in scena un farneticante Kazakistan pieno delle invenzioni più oltraggiose in tema di arretratezza est-europea – quasi fosse opera di Monty Python più sporchi e perversi. Memorabili la città di Borat, con la “corsa degli ebrei” stile Pamplona, i suoi amici, la sorella alla quale (con nostro soprassalto) dà un bacio erotico e poi ci spiega che è la quarta miglior prostituta del Kazakistan (lei mostra fiera la coppa); o la pagina visualmente migliore del film, che è la rissa nell’albergo fra Borat e l’orrido ciccione che lo accompagna, ambedue nudi come vermi: serve a scatenare un’ennesima “candid camera” correndo nudi per l’albergo, ma è anche una vera pagina di cinema estremo.
(Il Nuovo FVG)
venerdì 4 gennaio 2008
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