venerdì 4 gennaio 2008

Saturno contro

Ferzan Ozpetek

E’ una costante del cinema di Ferzan Ozpetek l’utopia di una comunità “liberata”, dai forti connotati omosessuali, autonoma e come protetta in un sogno d’amicizia (ed è un sogno nostalgico di lontana ascendenza pasoliniana: cfr. “Il fiore delle Mille e una notte”). Un sogno agrodolce: perché è fragile nel tempo, non può fondarsi sulla persistenza. L’autore ne è ben conscio: in “Saturno contro” (non bello, ma superiore ai suoi ultimi film), non lo dichiara solo la voce over in chiusura, ma vi allude la notazione che il personaggio di Davide è scrittore di fiabe.
Dunque Ozpetek è un regista arcadico. Il concetto stesso di Arcadia, per l’identico motivo, contiene un che di malinconico; nella loro lieta fila di dame e cicisbei, i vari “Imbarchi per Citera” settecenteschi hanno qualcosa di lievemente mortuario; ed è un tema iconografico forte quello della Morte che lascia il suo segno pure in quella terra felice: “ET IN ARCADIA EGO”.
Così, in “Saturno contro”, nella coppia gay di Lorenzo e Davide - centro di quella comunità libera - d’un tratto Lorenzo entra in coma e muore. Attenzione: se pure sono contemplate le lacrime e la morte, nel mondo di Ozpetek non esistono (cito l’immortale resumé dell’esistenza materiale che Tina Turner enuncia nel terzo “Mad Max”) “il sangue e la merda”. Tutti sono “belli”: non tanto nel senso della bellezza fisica - che pure c’è - ma perché manca il segno della miseria del corpo. Per questo il corpo di Lorenzo dopo l’ictus non si vede mai; è una triste presenza fuoricampo; viene enunciato solo nella scena dell’obitorio, dov’è il biancore della pelle a esprimere l’orrore fisico, ma (grazie al campo medio utilizzato) nient’altro. E’ quello stesso sentimento che faceva scrivere a Tasso “Morte bella parea nel suo bel viso”.
E’ giusto aggiungere che Ozpetek ha già tentato di uscire da quel suo orizzonte di porcellana: ma quando l’ha fatto ha realizzato film orrendi (“Cuore sacro”) o comunque falliti (“La finestra di fronte”). Gli si dovrebbe consigliare quindi di affinare quella dimensione modesta, ma non necessariamente spregevole, che evidentemente gli è propria. Eliminandone i tratti deteriori: i tocchi di brutto pseudorealismo, come qui l’orrida bambina petulante, che si vedeva già in “Cuore sacro”. Il sociologismo facile: la figura di Stefano Accorsi trova tratti da fiction tv (leggi: telegrafati) nel voler costruire l’immagine di trenta-quarantenne col complesso di Peter Pan, marito e padre debole che sfugge alle responsabilità. I poeticismi smancerosi: per esempio l’allucinazione (sogno?) di Ambra Angiolini quando entra nell’obitorio.
Ozpetek è un regista competente. Mostra una buona capacità di direzione degli attori (Ambra Angiolini, la “strafattona”, è una bella sorpresa; Milena Vukotic, l’infermiera, è superba come sempre; Ennio Fantastichini è assai bravo in un ruolo che esige più dalla mimica che dalle battute; bene Pierfrancesco Savino e Margherita Buy; dignitosi tutti gli altri – ma Stefano Accorsi, al suo solito, tende all’“overacting”). E Ozpetek sa inquadrare assai bene. Bello il particolare della donna straniera che piange al telefono sullo sfondo, bellissimo il fuori fuoco in cui la lascia la macchina da presa quando il triste gruppo dei protagonisti esce di scena. L’autore sa inserire dei tocchi interessanti nei personaggi e nei dialoghi; non vale per l’intero film, ma vi sono momenti di dialogo così buoni che uno quasi non crederebbe di vedere un film italiano (vedi l’eccellente scena notturna in ospedale fra Ambra e Vukotic: “Lei si è mai drogata?” – “No, io faccio l’uncinetto”). Il problema di Ozpetek è che, al di là dei tocchi felici, lascia sempre un’impressione di falso: non nel senso dell’insincero ma dell’artificioso, del troppo pensato, del “pulitino”. In una parola, il suo cinema tende al “troppo giusto” (vale, qui, anche per i pezzi scelti da un commento musicale invadente). Triste paradosso, che di troppo giusto si possa morire! Ma se un regista non può volare alto, almeno deve volare bene.

(Il Nuovo FVG)

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