venerdì 4 gennaio 2008

L’ultimo inquisitore

Milos Forman

La pagina migliore de “L’ultimo inquisitore” di Milos Forman (titolo originale, “Goya’s Ghosts”) arriva alla fine - quando i titoli di coda compaiono su un potente montaggio, sostenuto da una grande traccia musicale, di dettagli dei dipinti di Francisco Goya. A parte l’intrusione dei titoli, è un eccellente momento di documentarismo artistico. I ghigni e le maschere di Goya, “sparati” sul grande schermo, sembrano respirare, dilatarsi, assumono un’evidenza e una materialità impressionanti.
V’è un gusto documentaristico anche nella scena che ci mostra con precisione tecnica la fabbricazione di un’incisione. Ovviamente l’arte di Goya è protagonista in vari passaggi, come la bella apertura; ovviamente il film è pieno di volti e suggestioni goyesche. Ma più ancora che essere pittorico, il film di Forman usa i quadri e le incisioni di Goya come un autentico “storyboard”, rifacendoli quasi letteralmente sulla pellicola - ad esempio, gli stupri durante l’invasione francese (immagini uscite da “I disastri della guerra”), il prigioniero col “sambenito” in testa davanti al tribunale dell’Inquisizione, l’esecuzione con la garrota; e se ne potrebbero trovare vari altri. In effetti il film piega il proprio racconto allo scopo di produrre il riconoscimento di determinate immagini nello spettatore.
Sullo sfondo della Spagna dall’“ancien régime” a Napoleone alla Restaurazione, si muovono Goya (Stellan Skarsgard), il viscido inquisitore Lorenzo, che poi cade in disgrazia, fugge in Francia, diventa un rivoluzionario e ritorna in patria come funzionario napoleonico (Javier Bardem), e la modella del pittore, arrestata dall’Inquisizione e imprigionata per 15 anni, che in carcere dà alla luce la figlia dell’inquisitore (Nathalie Portman, in pratica in una tripla parte: Inés giovane, Inés distrutta e impazzita 15 anni dopo, sua figlia Alicia).
Come molti registi profughi dell’est europeo (l’esempio maggiore è Polanski), Milos Forman si porta dentro l’impronta della doppia tragedia del nazismo e del comunismo. Nel film emerge chiara l’intenzione di porre un’analogia tra la pratica dell’Inquisizione e il sistema di spionaggio e delazione costruito dai regimi comunisti; e c’è un dialogo sulla tortura, capace di costringere chiunque a confessare le peggiori assurdità, che si riferisce all’Inquisizione ma è scritto pensando al Novecento. Inoltre (ne parlava anche Forman in un’intervista) la figura di Lorenzo, ipocrita e fanatico insieme, che è prima inquisitore e poi rivoluzionario ma sempre uguale a se stesso (“Io sono un credente”), riflette il passaggio dal nazismo allo stalinismo che la Cecoslovacchia ha vissuto.
L’improvvisa ellissi di 15 anni è un’interruzione troppo forte, che inghiotte bruscamente vari personaggi, come il re e la regina (due belle interpretazioni di Randy Quaid e Blanca Portillo). Un difetto generale del film è la definizione un po’ umbratile di Goya (il Lorenzo goticamente mellifluo di Bardem gli ruba la scena - e in Italia anche il titolo). Il film, che vede in Lorenzo una sorta di Doppelgänger negativo di Goya, mostra la tentazione di suggerire un legame simbolico tra la sordità del pittore e il suo avversario (vedi la scena del quadro bruciato in effigie), ma questo resta a livello di vaga suggestione.
“L’ultimo inquisitore” avrebbe ben potuto intitolarsi “I misteri di Madrid”. Infatti il suo patente irrealismo è voluto, ed è quello del feuilleton: con gli scambi e le agnizioni, e con il tempo che diventa un elemento elastico superabile con un tratto di penna (o, nel film, con una didascalia): “15 anni dopo…” - senza affliggere troppo i personaggi, che riappaiono invecchiati poco o punto (come l’Inquisitore Generale interpretato da Michael Lonsdale).
Questo ed altro spostano il film sul grottesco. Niente di male: meglio grottesco che pompier alla Carlos Saura. Ma il grottesco de “L’ultimo inquisitore” è traballante e sghimbescio; e lascia l’impressione che il film non sappia di preciso dove vuole andare.

(Il Nuovo FVG)

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