Ridley Scott
Coincidenza o concorrenza, dal cinema americano ci sono arrivate contemporaneamente due epopee di truffatori: il modesto “Confidence - La truffa perfetta” di James Foley e lo splendido “Il genio della truffa” di Ridley Scott. Film quest’ultimo che, in verità, non comincia in modo molto convincente: quasi si direbbe un po’ fiacco, anche perché il meccanismo della truffa iniziale non è che appaia chiarissimo; ma poi prende vertiginosamente ala (per inciso, il film di Foley segue il percorso esattamente opposto).
Il protagonista Roy (Nicolas Cage) fa l’imbroglia-prossimo di professione (“Per certa gente il denaro è come un film straniero senza sottotitoli”), è disastrosamente nevrotico, e tutt’a un tratto si ritrova con una figlia quattordicenne: l’ex moglie - che lo odia - lo aveva abbandonato quand’era incinta. Scopre cos’è la paternità; ma in modo inevitabile si trova spinto (del resto, la ragazzina stessa preme entusiasta) a iniziare la figlia al proprio “lavoro”.
Il tratto più evidente è la figura di nevrotico compulsivo delineato da Nicolas Cage in una delle sue migliori interpretazioni in assoluto: apre e chiude le porte tre volte di seguito mormorando “un, dos, tres”, soffre di agorafobia e delira se vede una porta lasciata aperta, è maniaco della pulizia e idolatra la moquette. Ma in un film dallo sviluppo così serrato il suo personaggio, non che chiudersi in una dimensione macchiettistica, evolve con naturalezza in reazione alla logica dello svolgimento. Mirabile - in una parte ben più complessa di quanto appaia all’inizio - è Alison Lohman nel ruolo di Angela, la figlia adolescente.
Come la statua del cane dal sorriso da clown che vi compare, “Il genio della truffa” contiene tutta una serie di sorprese nel suo ventre. E’ un film caleidoscopico, pieno di sviluppi e rovesciamenti ben fondati, con un dénouement di quasi intollerabile crudeltà - e qui mi fermo per quanto riguarda la trama, onde non rovinare la visione al lettore/spettatore. Basta dire che inizia come una commedia, si sviluppa come un noir e si conclude come un convincente mélo (non sparirà dalla nostra commossa memoria il grande dialogo finale).
In tutto il suo cinema Ridley Scott è regista di dualismi e contrapposizioni. Anche “Il genio della truffa” (sceneggiatura di Nicholas e Ted Griffin) mette in scena un’opposizione, fra il mondo del padre e quello della figlia, fra l’innocenza di lei (pur troppo pronta a lasciarsi conquistare!) e l’allegra immoralità di Roy (“Questa è una gradevole razionalizzazione”, dice dei suoi discorsi autoassolutorî uno psicologo). Ci sono una realtà e una tenerezza non banale nella loro relazione. Non un film sulla truffa quanto sul rapporto paterno/filiale; e anche la conclusione, dopo la lunga strada a sorpresa dallo svolgimento, ribadisce in modo inaspettato che si tratta di un film sulla paternità.
Ma Ridley Scott è fondamentalmente un regista visuale. Al di là dell’intelligenza del racconto, quello che colpisce ne “Il genio della truffa” è la bellezza della regia. Non dico solo i notevoli artifici di regia, nel riconoscibile stile scottiano, con cui viene reso l’impatto della nevrosi di Roy. Ma vedi quei bambini che fanno smorfie, scorti da Roy nell’auto davanti a sé mentre va al primo incontro con la figlia mai vista: evidentemente appartengono alla realtà concreta, ma appaiono altresì una perfetta materializzazione simbolica della sua ansia. O vedi come, in una truffa basata su un falso biglietto vincente della lotteria, l’inquadratura in dettaglio del biglietto accartocciato, interlineata ripetutamente al totale coi due personaggi, compone una netta rappresentazione del desiderio della vittima, pronta a cascare nella rete. O la delicatezza dei primissimi piani soggettivi nella scena in cui Roy trova la figlia addormentata sul divano. La capacità di Ridley Scott di rendere i sentimenti non attraverso un’enunciazione narrativa ma con mezzi cinematografici.
(Il Nuovo FVG)
venerdì 4 gennaio 2008
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