venerdì 4 gennaio 2008

Rocky Balboa

Sylvester Stallone

La domanda è inevitabile, di fronte al bellissimo “Rocky Balboa” di Sylvester Stallone: il film coinvolge e commuove solo in senso cinefilo-generazionale? Poiché è il “Rocky VI” che mai ci saremmo aspettati (per inciso, un “Rocky VI”, maligna e spassosa parodia, l’aveva girato nel 1986 Aki Kaurismäki). Oppure è per valore proprio? E’ questa la risposta; anche perché il nuovo “Rocky” di Stallone non è affatto un’operazione cinefila. In questo che avrebbe potuto essere il più citazionista dei film, non esiste citazione. La citazione è una virgolettatura, è il riconoscimento di un distacco: è il collegare il proprio discorso a un discorso “altro”, appropriandosene come elemento, stile collage. Invece “Rocky Balboa” non recupera: completa; riprende con naturalezza la narrazione della serie (1976-1990) prolungandola con un’altra tappa, con lo stesso spirito malinconico con cui Dumas riprende i suoi moschettieri “vent’anni dopo”.
E infatti “Rocky Balboa” come linguaggio cinematografico si ricollega direttamente agli anni ’70-’80. Vi ritroviamo un cinema che oggi ci pare così lontano: il coraggio delle inquadrature fisse, i movimenti di macchina calmi e motivati, la costruzione pacata, coi tempi posti al servizio della trama. Salvo realizzare nell’emozionante combattimento finale una vera esplosione stilistica, con montaggio spezzato, flashback quasi subliminali, alternanza di colore e bianco/nero, impiego nel b/n di isolate colorature (il rosso del sangue!), e perfino il negativo.
Rocky, ultracinquantenne, col viso segnato di chi ha preso tanti pugni, vedovo di Adriana, in crisi col figlio ormai adulto, è invecchiato ma è sempre lui, il protagonista dell’ultima grande saga populista del cinema americano, col suo cappelluccio, il suo ingenuo senso dell’umorismo, la sua semplice moralità del rispetto di se stesso e della forza di restare in piedi. Il film mostra sullo sfondo i segni del cheto e doloroso fluire del tempo - per cui può sempre accadere che una moglie amata muoia improvvisamente “per uno di quei tumori che hanno le donne”, che un figlio crescendo si guasti, che un fratello possa non rivelarsi il migliore dei fratelli ma sia amato egualmente; e tutto questo non come argomento del racconto, sottoposto quindi alle regole drammaturgiche e al rischio dell’artificialità, ma come elemento del quadro, fornito con lo stesso spirito di naturale inevitabilità con cui è mostrato il degrado del vecchio quartiere.
Infatti, oltre all’interessante rispecchiamento che si pone fra il personaggio Rocky e il regista-interprete Stallone (ambedue “outsiders”, se ci pensiamo), ve n’è un altro tutto interno al film, tra il pugile e i “suoi” luoghi della Filadelfia popolare. “Se stai tanto tempo in un posto, diventi quel posto”, dice Rocky. Quella “piccola geografia sentimentale” che era stata costruita nella serie (e specialmente nel primo film, di John G. Avildsen) qui viene dipinta nel suo degrado o sparizione – il negozio di animali, la pista del ghiaccio – e celebrata nel ricordo.
La vecchiaia dei luoghi è la vecchiaia di Rocky; che però trova la forza della resistenza e - sfidando l’incredulità e gli sfottò degli “esperti” - ritorna sul ring contro il giovane campione della categoria. Questo è anche il momento di sbarazzarsi per sempre della bestia che ha dentro, gli dice il cognato Paulie (Burt Young): poiché questo film dal dialogo intimista è anche l’autoanalisi di Rocky: quando si è nella vecchiaia si tirano i conti. E’ il suggello della serie; Rocky nell’ultima immagine, dopo la visita alla tomba di Adriana, svanisce nel fuori fuoco del fondo. Ma i titoli di coda sulla gente di Filadelfia presentano il suo mito che rimane - e un fermo immagine, nei “credits”, di lui di schiena lo consegna per sempre alla memoria.
Il film di Stallone è una riflessione serena e drammatica sulla vecchiaia e la morale della vita. Ed è cinema profondamente umano. John Ford non avrebbe necessariamente amato “Rocky Balboa” - ma lo avrebbe capito, e questo è il punto.

(Il Nuovo FVG)

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