Martin Campbell
Alcuni dei romanzi bondiani di Ian Fleming sono più cupi e introspettivi degli altri: “Si vive solo due volte”, ad esempio, o il primo, “Casino Royale”, in cui James Bond si innamora e viene tradito. Il nuovo film di 007, l’eccellente “Casino Royale” di Martin Campbell, nel suo climax a Venezia articola un concetto assolutamente geniale con l’esibizione del palazzo veneziano che per il crollo delle fondamenta affonda nell’acqua sotto gli occhi dei turisti. Scena ammirevole non solo per l’audacia iconoclastica della visione (al servizio di quella “meraviglia dell’occhio” che è una componente di base dei film di 007) ma perché utilizza splendidamente la trama per aggredire il valore connotativo. Poiché nel dizionario visivo del cinema Venezia è il luogo deputato dell’amore – e il film l’aveva confermato col giro di sguardo che fa scoprire Venezia quando Bond gira in motoscafo con la sua amante Vesper e scrive le sue dimissioni dal servizio segreto – per metafora è il romanticismo stesso che affonda. Non si potrebbe trascrivere meglio il senso di delusione e impoverimento che chiude il romanzo di Fleming.
Con “Goldeneye” nel 1999 l’abile Martin Campbell aveva presentato un nuovo 007, Pierre Brosnan, e data un’iniezione d’ossigeno alla serie. Con “Casino Royale”, non solo dirige l’esordio di Daniel Craig nei panni di Bond ma sottopone il personaggio a una profonda ridefinizione.
Anziché introdurre il volto nuovo come niente fosse, secondo la tradizione cinematografica bondiana, il film costruisce per Bond un nuovo “mito di nascita”. Nel prologo in b/n vediamo James Bond guadagnarsi il doppio zero della licenza di uccidere; poco dopo, M (Judi Dench), furiosa per un errore di 007, ringhia: “Io lo promuovo a doppio zero e lui…”. Questo è fondamentale perché, definendo esplicitamente quanto era implicito nel prologo, elide tutto il bondismo precedente, e seppellisce definitivamente Bernard Lee (il vecchio M di Sean Connery e Roger Moore). Tant’è vero che quando Bond si introduce di notte in casa di M il film scherza sul fatto che M è l’iniziale del nome di lei.
Già nel prologo citato, l’uccisione del complice del traditore durante una lotta nei bagni è scomposta e violenta in modo “shocking” per l’universo bondiano; ricorda addirittura la grande pagina di Hitchcock ne “Il sipario strappato” che ci mostra com’è difficile uccidere un uomo. I titoli di testa si concludono mettendo in evidenza i gelidi occhi azzurri del nuovo 007. Daniel Craig è un Bond duro, un Bond che non sorride. Lo scherzetto che fa al tedesco prepotente a Nassau mostra un senso dell’umorismo vendicativo che sarebbe perfettamente in tono con tutti suoi predecessori – ma è la freddezza quasi dolorosa di Craig a renderlo inquietante. Non ha quel loro goloso amore della vita né (di conseguenza?) quel loro atteggiamento quasi sportivo e “dégagé”.
Se l’inseguimento in Uganda serve a confermarci il suo tradizionale lato “superomistico” (ma qui Bond sanguina), non c’è nel film il romanticismo spionistico della serie 007. Il film riscrive il personaggio di Bond in senso amaro e quasi noir: cosa che permette di lasciarlo credibilmente nel suo ruolo nei servizi segreti senza elidere quella connotazione di “lavoro sporco” che ormai i servizi si portano dietro. Non a caso Vesper (una super rompiscatole, e neppure bellissima – potendo scegliere, Bond faceva meglio a scappare con l’amante bionda di Le Chiffre) lo sottopone a un’analisi psicologica passabilmente spietata. Vengono persino degradati, in una stessa scena dopo la sconfitta a poker, il mito dell’imperturbabilità di Bond e quello del suo Martini.
La conclusione, in cui Bond si appropria della sua tradizionale formula di presentazione in termini di pura ferocia – e su questo entrano i titoli di coda con la classica sigla musicale bondiana – è una bellissima soluzione che si lega col revisionismo dell’inizio. Bisogna andarci cauti con il revisionismo; ma “Casino Royale” ha fatto centro e ci offre un Bond per il secolo XXI.
(Il Nuovo FVG)
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