Cameron Crowe
Il modesto “Vanilla Sky” di Cameron Crowe sviluppa il genere dei remake realizzati a Hollywood da successi europei: qui lo spagnolo “Apri gli occhi” di Alejandro Amenabar (a quest’origine rende omaggio la prima frase che sentiamo nel film: “Abre los ojos”). Dico sviluppa, per l’aderenza quasi ossessiva che mantiene al testo originale - tant’è che non si capisce cos’abbia indotto il regista a scrivere nei credits “scritto e diretto da Cameron Crowe”, quando la sceneggiatura segue così da vicino quella originaria di Alejandro Amenabar e Mateo Gil (naturalmente sarebbe opportuno verificare punto per punto il rapporto fra adesione e scarti con un’attenta nuova visione comparata dei due film - ma riesco a malapena a concepire un modo peggiore di impiegare il tempo).
Certo la bizzarra natura di copia di “Vanilla Sky” (posso coniare il termine, vagamente cronenberghiano, di “gemellanza”?) ha una vaga dignità di fredda perturbante operazione pop: potrebbe ricordare lo “Psycho” di Gus Van Sant, che rifaceva Hitchcock “riga per riga” (operazione più seria, peraltro, sebbene pure quello fosse un fallimento artistico). Però, se già poco soddisfacente era il rigonfio film spagnolo, che almeno aveva il merito dell’originalità, il suo rifacimento americano sta al di sotto; così una certa dose di noia si mescola al déja vu. E’ interessante che Penelope Cruz incarni lo stesso personaggio in entrambi i film, ma in “Vanilla Sky” le interpretazioni sono in genere alternativamente o fiacche o sopra tono (la gesticolazione un po’ teatrale di Kurt Russell nelle scene in carcere). La migliore è Cameron Diaz: la sua faccia da strega nell’angosciosa scena a letto regala al film uno dei suoi pochi autentici momenti inquietanti.
Costellato di insistenti richiami più o meno metaforici al doversi svegliare, “Apri gli occhi” alias “Vanilla Sky” incrocia tre fili: l’ambiguità angosciosa tra sogno/realtà, il concetto dell’onnipotenza paranoica del Creatore della Storia, il mito cinematografico del Fantasma dell’Opera, che cela il volto deforme sotto una maschera bianca, figura tormentata iscritta nel DNA di ogni attore drammatico americano (e qui è un’esperienza nuova vedere Tom Cruise che recita per metà film con la faccia disfatta, nel trucco di Michael Burke).
Tutti argomenti stimolanti, ma “Vanilla Sky” esplora i rapporti sogno/realtà nel modo più banale possibile (se ci aveste pensato, dimenticatevi di David Lynch). L’aspetto più positivo è un bel lavoro del direttore della fotografia John Toll, che riveste di colori onirici (è il “cielo vaniglia” alla Monet del titolo) le scene “non reali” in modo da farlo comprendere retrospettivamente dopo. Quanto all’onnipotenza creatrice, è un discorso che il film sviluppa con qualche goffaggine (penso per esempio all’imbarazzante scena nel bar-ristorante). Merita notare, a tal proposito, che mentre di solito “Vanilla Sky” è attaccato al modello spagnolo come una cozza allo scoglio, ecco che va a distaccarsene proprio per eliminarne uno dei dettagli più interessanti in assoluto (almeno per i narratologi!): la scena di disperazione di un personaggio alla rivelazione che è, appunto, un personaggio.
Il film (condito di citazioni, da “Jules e Jim” a James Bond) lancia ogni tanto delle esche degne d’attenzione, ma le lascia per aria: da Dio (la battuta di Tom Cruise al telefono “Non dire dove sono neanche se chiamasse Dio” potrebbe implicare, dato lo svolgimento, intriganti addentellati religiosi) ai Sette Nani che potrebbero riportare a un clima fiabesco (anche quella di Biancaneve a ben pensarci è una storia di ibernazione...), tutto svanisce lì. Quel che resta purtroppo è un bruttissimo dialogo roboante e sentenzioso, costellato di battute a effetto teatrali (un difetto costante nell’opera di Cameron Crowe; vedi il brutto “Jerry Maguire”). Morale: di “Apri gli occhi” ce ne basta e avanza uno.
(Il Nuovo FVG)
martedì 8 gennaio 2008
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