Michael Cristofer
Il dio dei remake è un dio crudele. Non che qualsiasi rifacimento cinematografico sia per forza destinato al fallimento; sarebbe persino illogico se così fosse; però, oggettivamente, succede molto spesso. “Original Sin” di Michael Cristofer, poi, puntava temerariamente in alto: è, reggetevi forte, un remake americano de “La mia droga si chiama Julie” (sciocco titolo italiano de “La sirène du Mississippi”) di François Truffaut. Hai capito?
Niente di serio, s’intende. Il romanzo di Cornell Woolrich “Waltz into Darkness”, da cui il capolavoro truffautiano, diventa una gonfia soap opera cinematografica: Antonio Banderas, produttore cubano di tabacco fine ‘800, sposa Julie, la sua fidanzata per corrispondenza, ignaro che costei ha ammazzato la vera fidanzata in viaggio e si è sostituita a lei; quando però lo scopre, non la vuole perdere: trattandosi di Angelina Jolie, è comprensibilissimo. E giù disgrazie a caterva (perché lei fa il doppio gioco, anche con se stessa), finché non finiscono felicemente in un Marocco cartolinesco a vivere la vita dei bari alle carte (sì, bari... sbirciando alle spalle dei giocatori, lei fa a lui dei segni così scoperti che sarebbero cacciati a pedate perfino da una tavola di briscola friulana).
Turgido e torrido, “Original Sin” è un esempio di ultra-Kitsch spinto ai confini estremi. E in questo potrebbe essere anche divertente, e un futuro esempio di brutto “cult” (“so bad it’s almost good”, si suol dire); basta non confondere la sua comicità involontaria con la bellezza spudorata dei vecchi melodrammoni. Perché una volta il cinema era capace di costruire dei castelli in aria che nobilitavano il Kitsch puro trasformandolo in grandezza assoluta: da “Via col vento” a Matarazzo; ma c’era dietro in primo luogo una sorta di ingenuità sentimentale che oggi in Occidente si è persa (“Original Sin” è solo furbo), e poi una bravura narrativa che Michael Cristofer si sogna.
Tutto in “Original Sin” cospira per creare un monumento al pomposo ridicolo. Lo svolgimento costellato di “sorpresone” deliranti e di buffissimi anticlimax. Il dialogo, con battute roboanti che non si capisce come gli attori abbiano pronunciato senza sghignazzare. Il montaggio esaltato (nota l’associazione firma di Banderas per la comunanza dei beni/pugno in faccia che lui riceve durante l’allenamento di boxe). I movimenti di macchina gasatissimi e la fotografia compiaciuta (il carnevale cubano e il bordello sono le parti riuscite meglio perché sono gli ambienti che meglio si accordano al generale tono eccessivo). La “score” musicale romantico-furiosa. E naturalmente le scene di sesso patinato. Niente in contrario al sesso: le spettatrici apprezzeranno il liscio didietro tondeggiante di Antonio Banderas e gli spettatori le belle poppe siliconate di Angelina Jolie (e una minoranza, legittimamente, viceversa); ma sempre patinato è.
Quanto agli interpreti, Antonio Banderas, dalla sofferente faccetta carnosa, sembra Gene Gnocchi che fa l’imitazione di Victor Mature. Angelina Julie ha un ruolo più facile: con labbra che sono il sogno di Alba Parietti, deve solo fare il metro cubo di sesso puro, anche quando si commuove, e ci riesce bene. Tuttavia la sua interpretazione di dark lady ultraseduttrice, che a parte l’esito del film poteva rappresentare una bella tappa nella sua carriera, risulta involontariamente parodistica. Immaginate di clonare un mix di Jessica Rabbit più Morticia Addams (quando, avete presente, vuol far ingrifare Gomez) più Yvonne Sanson più una percentuale di Vanessa Del Rio... Chi scrive è a favore degli organismi geneticamente modificati, ma qui si esagera.
Oddio, è sempre meglio questa forma di Kitsch ultrapopolare e soapistico che non il Kitsch intellettualistico e presuntuoso come - per fare un esempio recente - il bruttissimo e scopiazzatissimo “Le Pornographe” di Bertrand Bonello. Ma perché dovremmo scegliere?
(Il Nuovo FVG)
martedì 8 gennaio 2008
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