mercoledì 9 gennaio 2008

Una settimana da Dio

Tom Shadyac

Sembra intimidatorio dire che il tema di un film che mira solo a far sorridere con Jim Carrey, come “Una settimana da Dio” di Tom Shadyac, è la teodicea (ossia la giustificazione filosofica di Dio rispetto all’esistenza del male). Ma non bisogna spaventarsi del formidabile termine. Proprio come Monsieur Jourdain nel “Borghese gentiluomo” di Molière, che era tutta la vita che parlava in prosa senza saperlo, così tutti noi facciamo quotidianamente della teodicea senza pensarci. Metti, quando ci cade un peso sul piede o sbattiamo contro uno spigolo o perdiamo il treno, e allora tiriamo giù un bestemmione: questo è l’inizio di qualsiasi teodicea, in quanto riconosce l’esistenza del male e chiama la divinità a risponderne.
Nel film Jim Carrey, aspirante anchorman televisivo scalognato, non spara bestemmie, però volentieri incolpa Dio di tutto quanto di male gli succede. “Io non ho l’uovo e nemmeno la gallina; Dio mi ha preso sia l’uovo che la gallina”: non è proprio il Libro di Giobbe, ma rende l’idea (e la sua retorica della ripetizione variata è proprio biblica). Alla fine Dio - col volto insieme paterno e autorevole di Morgan Freeman - si stufa; lo convoca e gli offre di prendere il Suo posto per qualche giorno, così vediamo come se la cava lui.
Manco a dirlo, come Dio Jim Carrey fa un pessimo lavoro. All’inizio si dedica ai miracoli privati (vendicarsi dei suoi nemici, aumentare il seno alla sua ragazza), ma anche in seguito è un combinaguai. Tuttavia lo spettatore resta con l’impressione che un gran lavoro non lo faccia neanche Morgan Freeman, nonostante sia un Padreterno fra i più simpatici apparsi al cinema. Quella del film è insomma una ben povera teodicea (in sintesi: “volemose bene” e diamoci da fare), su cui si stende l’ombra di Frank Capra, infatti apertamente citato. Andava più in là perfino il vecchio “Il mio amico il diavolo” (1967) con Peter Cook e Dudley Moore.
Per fortuna si ride con Jim Carrey, sempre commediante delizioso; la sceneggiatura caratterizza il personaggio in modo da permettergli di recuperare i vecchi tic alla Ace Ventura; e fra Carrey e Morgan Freeman si crea un’alchimia che conduce a un dialogo divertito (mentre Jennifer Aniston non trova l’ispirazione per offrirci una interpretazione che sia più che corretta; probabilmente ci sarebbe voluta un’attrice meno sobria, qualcosa alla Cameron Diaz). Come comico Jim Carrey ha sempre avuto un côté inquietante: immaginarlo provvisto di poteri divini non è il colmo della sicurezza. Così la parte migliore del film è l’inizio della sua carriera divina, fra incredulità e infantilismo. Un paio di scene sono destinate a rimanere nella nostra memoria (“Una settimana da Dio” è il classico film di cui si ricordano con piacere frammenti sparsi), come quando il neo-Dio vede passare una bellona prosperosa e le fa alzare la gonna da una ventata, alla Marilyn Monroe, scoprendole le mutandine e con un ghigno demente commenta: “Ed Egli vide che ciò era buono”. O quando alla tavola calda la cameriera gli porta una minestra di pomodoro e lui alzando le mani la “divide” come le acque del Mar Rosso; ciò che sarebbe spiritoso comunque, ma diventa geniale perché il commento musicale e l’impostazione visuale del “miracolo” citano direttamente la scena del classico “I Dieci Comandamenti” di Cecil B. De Mille.
Un merito di “Una settimana da Dio” è che, nonostante un’ovvia (ma non spiacevole) conclusione “educativa”, evita le peggiori secche del moralismo patetico. Per esempio, a un certo punto Jim Carrey è pentito e vuol mostrare a Dio che ha imparato a pregare, così si butta nella tipica preghieruccia buonista rugiadosa che chiede il bene per tutto il mondo. “Come vado?” - “Perfetto - se vuoi diventare Miss America”, gli fa Dio sorridendo, e gli ordina di riprovare. Certo, un film alquanto modesto, né abbastanza elaborato né viceversa abbastanza sgangherato, che non entrerà nei seminari di filosofia; ma non chiudiamo gli occhi di fronte a quel tanto di divertimento che sa dare.

(Il Nuovo FVG)

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