mercoledì 9 gennaio 2008

Il segno della libellula

Tom Shadyac

Partiamo dal concetto di bruttezza eroico-assoluta: quando cioè un film raggiunge tali livelli di imperdonabilità, che paradossalmente servono, non ad assolverlo, ma a incasellarlo nel ricordo con quella specie di irridente sopportazione, vagamente incredula, che riserviamo a certi soprammobili terrificanti visti in giro, a certi ritratti di clown alla “Datemi un fiammifero”, a certi programmi televisivi immondi, a certi spot pubblicitari di serie Z.
Lo sciagurato “Il segno della libellula” di Tom Shadyac rappresenta uno dei più chiari esempi di brutto eroico-assoluto fin dai tempi del riprovevole “Al di là dei sogni” di Simon Ward (questo non per dire che non ci siano state simili orridezze in seguito, come, a giudicare dai trailer, “Il mandolino del capitano Corelli” di John Madden e “Nowhere” di Luis Sepulveda - che però chi scrive, messo appunto in sospetto, si è guardato bene dall’andare a vedere). “Il segno della libellula” pone la sua candidatura a cult del Kitsch sotto molti aspetti, ma principalmente grazie alla sceneggiatura melensa all’estremo di Brandon Camp, Mike Thompson e David Seltzner: un diluvio di retorica lacrimosa e “politically correct”, accompagnato da una brutta musica pompata, che vede Kevin Costner - medico in ospedale da poco vedovo di una moglie morta in Centroamerica - ricevere messaggi dalla moglie defunta, specialmente attraverso bambini rientrati dallo stato di pre-morte. Da questo punto di vista il film pare la dilatazione spiritualista e basso-melodrammatica di un episodio di “E.R.” (non per niente siamo a Chicago); ma non occorre insistere che cinque minuti di “E.R.” contengono più intelligenza, eleganza e umanità che tutte le due ore di questa brodaglia. Semmai, quanto a riferimenti televisivi, i terribili dialoghi altisonanti (ohi, quello con la moglie su “i nostri valori”!) ricordano la peggior fiction semi-soap italiana. Sembrano scritti da Lidia Ravera e Mimmo Rafele.
C’è una piccola idea effettiva - le misteriose croci disegnate dai bambini, che si scopre stanno a indicare la cascata del rendez-vous metafisico - ma si direbbe presa in prestito allo Spielberg di “Incontri ravvicinati”, e comunque, se vogliamo, lascia aperto un problema: se i morti possono comunicare con noi, più o meno difficoltosamente, perché lo fanno con questi rebus? Questo delle croci sembra proprio la Settimana Enigmistica, 9286° “Quesito con la Susi”. Naturalmente, non è che la logica in un film sia per forza la cosa più importante, ci sono esempi egregi in contrario; quanto sopra è detto solo per sottolineare che, nel momento che lo spettatore arriva a mettere in discussione la fondatezza di un assunto del film, significa che il racconto non è riuscito a catturarlo. Mostrando ingenuamente a ogni passo dove vuol condurre lo spettatore, “Il segno della libellula” si trascina in una piattezza ripetitiva da soap opera medianica, tutto nei terreni del già detto/già visto, tutto nei terreni dell’ovvio, attraverso una serie di scene - metti, il dialogo di Kevin Costner con la “terapeuta del dolore” - che per essere prevedibili non sono meno imbarazzanti. Nella speranza di insinuare qualche emozione, il film azzarda un paio di tentativi di fabbricare un “côté” inquietante, con scene come quella del corpo da espianto, che vorrebbe essere drammatica e orrorifica ma finisce nel ridicolo (se parliamo di ridicolo, però, le batte tutte la scena nella corriera sommersa, con Kevin Costner che fa volonterosamente la faccia di quello che annega).
Del resto, poteva funzionare da segnale d’allarme proprio la presenza di Kevin Costner, che quanto a film non ne azzecca uno. Qui, imbolsito com’è da anni, si aggira per tutto il film con un’espressione tetra alla Michele Santoro ma non trasmette un attimo di empatia. Dispiace caso mai vedere presi in mezzo Cathy Bates (la vicina) e ancor più Linda Hunt (la suora), che è una grande - e che appena finite le riprese si sarà fatta una mezza bottiglia di whisky per consolarsi di dov’è capitata.

(Il Nuovo FVG)

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