mercoledì 9 gennaio 2008

Secretary

Steven Shainberg

Fuori dal comico puro, e ovviamente dal porno, al cinema l’elemento disturbante del masochismo ha trovato spazio soprattutto in forme allusive (vuoi sulla sofferenza fisica, vuoi sul rapporto di dominio), oppure è stato deviato nella configurazione fantastica (un film capitale in questo senso è “Hellraiser” di Clive Barker). L’interessante commedia “Secretary” (cioè la segretaria), primo lungometraggio di Steven Shainberg, ci parla direttamente di sadomasochismo come storia d’amore. Non è difficile ravvisare in “Secretary” certi difetti della produzione indipendente americana, come la voglia talvolta prorompente di mostrarsi “artistico”, ma ne possiede anche i pregi: originalità di concezione, disposizione a portare avanti logicamente l’argomento senza compromessi, e qui un particolare coraggio della fisicità. Se la sceneggiatura di Erin Cressida Wilson mostra all’inizio una certa lentezza nell’organizzarsi, con lo sviluppo della narrazione il film prende ala; il linguaggio cinematografico di Steven Shainberg è sciolto e sicuro.
Lee (l’ottima Maggie Gyllenhaal), una autolesionista compulsiva appena uscita da una casa di cura, viene assunta come segretaria dall’avvocato Grey (James Spader). Questi cominciando con piccole prepotenze, come fingere di aver perso delle carte per fargliele cercare nella spazzatura, instaura con lei un autentico rapporto sadomasochista, con al vertice le sculacciate quale punizione degli errori di battitura delle lettere. Nota però che nell’ufficio dell’avvocato Grey non vediamo computer: evidentemente perché solo la macchina da scrivere rende possibile sbagliare la battitura. Ossia l’ufficio è costruito come macchina sadoerotica. Ed è costellato di fiori in vaso, evidente parallelismo con le segretarie che l’avvocato “coltiva” e ogni tanto licenzia (ne vediamo una andarsene piangente all’inizio); una specie di serra in cui lui compie sui fiori bizzarre operazioni che coinvolgono una strumentazione d’aspetto vagamente sadico (siringhe). Del resto - con un’allusione di sceneggiatura meno sottile - la prima lettera che Lee sbaglia, onde viene punita, parlava di animali in cattività (il che richiama quel superbo trattato sul sadomasochismo che è “Marnie” di Hitchcock, ma questa è un’altra storia).
L’avvocato Grey non è un sadico in senso stretto: assume la sua posizione nel gioco bipolare - dominant/submissive, Master/Servant - del sadomasochismo. Parimenti Lee fa apposta a sbagliare le sue lettere per ricevere la punizione. Lee si è impadronita dei propri istinti: guarita dall’autolesionismo (anche su preciso ordine del padrone), dal dolore come autopunizione passa al dolore/all’umiliazione come piacere. Il gioco dei due si articola con meticolosità nella meccanica cerimoniale delle posture fisiche obbligate e del controllo delle espressioni verbali (“Un incontro sessuale S&M è sostanzialmente un rituale, che comincia dal linguaggio” - Rev. William Cooper, “Sesso estremo”, Castelvecchi 1995).
“Secretary” affonda le sue radici in una satira del rapporto d’ufficio, mettendone a nudo l’intrinseco elemento sadomasochista, con l’interessante rovesciamento di istituzionalizzarlo come piacere; ma questo film deviante e spiazzante non si ferma qui. Improvvisamente l’avvocato si tira indietro, spaventato dal rapporto d’amore che si sta instaurando, e Lee lo riconquista spingendo al massimo quello che potremmo chiamare l’ascetismo robotico sadomaso.
E così si sposano. Vedere la loro luna di miele sadomaso in montagna, dedicata ai piaceri del bondage, potrebbe essere ancora ordinaria commedia hollywoodiana; ma non lo è lo scarafaggio morto che lei tira fuori solennemente, come un regalo segreto, dal taschino della camicetta candida; e il lungo sguardo in macchina di lei prima dei titoli di coda ci parla di una lunga storia ancora da proseguire, ma che non sarà raccontata - perché è privata.

(Il Nuovo FVG)

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