martedì 8 gennaio 2008

U-571

Jonathan Mostow

Questi ultimi anni hanno visto un ritorno in forze del film di guerra, comprendente due capolavori: “Salvate il soldato Ryan” di Steven Spielberg e “La sottile linea rossa” di Terrence Malick. In entrambi questi film, in modo diverso, il discorso sulla guerra si allargava, si proiettava fuori di sé: verso l’esterno, lo sguardo e la comunità umana, per Spielberg; verso l’interno, l’anima e l’angoscia esistenziale, per Malick. Nell’emozionante “U-571” di Jonathan Mostow - film, beninteso, dalle minori ambizioni artistiche - il discorso sulla guerra non si allarga ad altro: la guerra resta “la cosa in sé”.
Verrebbe voglia di fare un’ipotesi affascinante (e completamente sballata): che un film sui sommergibili, con la carica claustrofobica che comporta, costringa quasi automaticamente il discorso a richiudersi su se stesso. Ma non è affatto vero, come per esempio dimostra il bellissimo film coreano “Phantom, the Submarine” di Min Byun-chun, visto a Udine a Far East Film 1999.
Sommergibili, appunto, perché “U-571” racconta di una missione americana nella seconda guerra mondiale per sottrarre ai tedeschi, assaltando un loro sottomarino in avaria, la macchina del cifrario Enigma, il cui possesso contribuirà a decidere la guerra. Sul piano storico, per inciso, sono balle spudorate: a conquistare Enigma furono gli inglesi, i quali infatti per questo film si sono (giustamente) incavolati parecchio. Comunque, il gruppetto di audaci capitanato da Matthew McConaughey finisce per ritrovarsi da solo, bloccati nel sommergibile tedesco danneggiato che hanno conquistato, in difficoltà perfino per decifrare le scritte sui comandi...
Nel film di Jonathan Mostow la guerra è, dicevamo, “la cosa in sé”; è un discorso centripeto, che tutto riporta a se stesso: anche la tensione fra i caratteri - che in Spielberg si ampliava dalla guerra alla condizione umana, al grande discorso sulla morale del vivere - qui si risolve nella perfetta riuscita, non senza sacrificio di vite, di una serie di operazioni militari in grado di garantire la sopravvivenza. La descrizione che Mostow (regista, soggettista e co-sceneggiatore)fa della guerra sottomarina è una descrizione “matter of fact”, oggettiva, coerente - la coerenza è la vera cifra del film - anche sul piano stilistico. Ne è un buon esempio la scena asciutta, antiretorica, veramente “fattuale” del mitragliamento tedesco di una barca di naufraghi: inquadratura dei visi dei tedeschi - la scena in campo lungo - stacco. Ben pochi registi moderni l’avrebbero risolta così.
Anche per questa forma di sobrietà il film risulta coinvolgente; non è esagerato dire che le sue situazioni di tensione - come quando il sottomarino scricchiola sotto le esplosioni delle bombe di profondità - fanno paura davvero. I visi tesi, cupi, spettrali degli eccellenti interpreti (fra cui vanno citati almeno Matthew McConaughey, Harvey Keitel, Jack Weber) rendono appieno la reazione emotiva. La regia di Mostow è intelligente e controllata; ne risulta un film compatto e sicuro. Da segnalare le splendide riprese subacquee: la semplicissima inquadratura di due siluri che si incrociano in direzione opposta, in un duello fra sommergibili che è quasi una sparatoria western, ci resterà impressa nella memoria.
“U-571” si segnala per quello che potremmo chiamare, in senso tutt’altro che negativo, il suo tradizionalismo. Jonathan Mostow lo dichiara apertamente: “Ho cercato di ricostruire un film di guerra della vecchia Hollywood nella tradizione del cinema degli anni Quaranta e Cinquanta”. Motivi assai tradizionali nella cinematografia bellica - oggi rari da ritrovare, almeno in forma pura - nella definizione delle figure (il comandante insicuro, l’anziano ufficiale esperto, la recluta isterica, il prigioniero infido) e delle situazioni (per esempio, la sfiducia nel nuovo comandante che serpeggia nell’equipaggio) qui non appaiono usurati ma vengono riportati a nuova vita in maniera pienamente convincente.

(Il Nuovo FVG)

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