sabato 12 gennaio 2008

The Truman Show

Peter Weir

Che c’entra un classico di fantascienza anni Cinquanta di Don Siegel con “The Truman Show”, in cui il giovane Truman (Jim Carrey) scopre che la cittadina dove è sempre vissuto è un set televisivo, che gli abitanti (compresi gli affetti più intimi) sono attori e comparse, che per tutta la vita lui, spiato da 5mila telecamere nascoste, è stato il protagonista di una serie tv senza saperlo?
Eppure il geniale film di Peter Weir è la versione di fine millennio de “L’invasione degli ultracorpi”, il remake definitivo che non era riuscito né a Philip Kaufman né al grande Abel Ferrara. Lo dichiara apertamente la memorabile scena horror in cui Truman è scappato e tutti i “cittadini” si uniscono in temibili squadre di ricerca. Mentre la (finta) luna si trasforma in un riflettore, la normalità paciosa del luogo si rovescia in minaccia; i quotidiani visi rassicuranti diventano ostili; il bel cane dalmata che faceva le feste a Truman è una belva ringhiante. Perché la connotazione aliena sia ancora più evidente Peter Weir mostra nella fila dei “cittadini” un tecnico televisivo che il casco portamicrofono rende una figura marziana.
“The Truman Show” è una sorprendente descrizione dell’incubo della “realtà finta”, nella quale porte che non dovrebbero esserci si aprono e te ne rivelano una diversa. La concezione paranoica per cui tutto ha un senso. La città chiusa, da cui ostacoli apparentemente naturali non ti lasciano fuggire (su questo, benché tutto il film riecheggi concezioni dickiane, ritorna in mente un romanzo poco conosciuto di Philip K. Dick, “La città sostituita”). L’ossessione della gente falsificata: tutte le persone sono maschere di un Altro che ci spia. “L’invasione degli ultracorpi”. Solo, “The Truman Show” sposta la realtà aliena dall’invasione all’immanenza. L’orrore non viene dalle stelle: ci nasce dentro.
Il film, sceneggiato da Andrew Nicoll, alimenta felicemente la continua rivelazione della natura televisiva del mondo di Truman: la città “finta”, televisiva, dai muri verniciati troppo nuovi; i volti, le caratterizzazioni, la recitazione da soap; le esilaranti entrate della pubblicità indiretta; i sotterfugi psicologici usati per indirizzare il comportamento di Truman (il quale risulta un’altra delle figure innocenti e lunari, alla Tim Burton, del cinema americano; come assolutamente burtoniana è la “sua” città). E bisognerebbe scrivere un articolo intero solo sulla dialettica delle inquadrature in “The Truman Show”, grande riflessione metalinguistica. Non per nulla il film di Weir inizia con i titoli di testa del “Truman Show” televisivo, a marcare un’ambivalenza.
La concezione del film implica ovvii addentellati religiosi. Il produttore/regista dello spettacolo, dal nome non innocente di Christof (Ed Harris), è un falso Dio: ha creato il mondo, comanda gli eventi, controlla il sole e la luna (nella quale abita). A fine film si rivolge direttamente per la prima volta a Truman (il quale ha appena “camminato sulle acque”) come un dio tentatore. Ma invano: l’uscita di Truman dal falso mondo – attraverso una scaletta e una porta che si apre “nel cielo” (elegante riferimento alla pittura di Magritte – risolve il dibattito che attraversa il film sulla scelta (in primis quella dell’amore: ecco l’alto simbolo romantico della foto-collage) e la libertà.
Ammirevole coerenza di Peter Weir: tutto il suo cinema – “Picnic ad Hanging Rock” e “L’ultima onda”, “Mosquito Coast” e “Witness”, “L’attimo fuggente” e “Fearless” – ci parla della scoperta di una dimensione “altra”, una fessura, “di là” rispetto al mondo che conosciamo: ora in termini mistici e inquietanti, ora in termini di crescita e responsabilità (nella caverna dei Poeti Morti i giovani de “L’attimo fuggente” diventano uomini). “The Truman Show” porta questa tematica al massimo di tensione e di chiarezza, con forza e sobrietà.

(Il Friuli)

Nessun commento: