sabato 12 gennaio 2008

Il ritorno

Andrej Zvjagintsev

Vincitore alla Mostra di Venezia 2003, “Il ritorno” di Andrej Zvjagintsev è un notevolissimo debutto, e un film indubbiamente di alto livello. Anche se un difetto artistico gli impedisce di poter essere considerato un capolavoro: è un film, per così dire, bicefalo.
Un giorno, di ritorno a casa, due ragazzini - Andrej, il maggiore, e Ivan - apprendono che il padre è tornato dopo un’assenza di 12 anni. Un padre misterioso che misteriosamente ritorna... All’inizio il film si colloca chiaramente sotto il segno di Tarkovskij. Non solo rimanda a Tarkovskij quell’edificio di cemento in abbandono, dai pavimenti bagnati: quel realismo delle macerie di un universo fangoso che tanto si presta a sviluppi simbolici, ed è una cupa immagine tarkovskiana che segna profondamente il cinema russo, dal realismo fantastico di Lopusanskij al realismo storico-psicologico di Kanevskij. Tanto più è tarkovskiana l’indefinitezza simbolica e forse mistica del film. La realtà ma su un altro piano. L’ambiguità del reale diventa allusiva; la concretezza assume risonanze metafisiche. In un’inquadratura del padre addormentato lo scorcio riproduce con evidenza il “Cristo morto” del Mantegna, introducendo una connotazione cristologica; nota che i due vanno a cercare per verifica una vecchia foto del padre e la trovano conservata tra le pagine di una Bibbia.
Poi il padre porta i figli in un breve viaggio (lasciando a casa la moglie e la madre di lei) per dei misteriosi affari chiaramente illegali. Il suo comportamento è ambiguo, oscuro; il suo atteggiamento educativo nei confronti dei figli è brusco e autoritario. Il film illumina bene tanto i difetti dei due fratelli quanto la durezza del padre, la sua difficoltà a instaurare un rapporto. La sua calma adulta è minacciosa, benché le botte siano più spesso minacciate che date. Mentre il ribelle, ostile Ivan mette perfino in dubbio, contro l’evidenza, che l’uomo sia davvero il padre, Andrej, il figlio maggiore, lo accetta; il padre in vari momenti gli consegna il portafoglio, l’orologio, l’ascia, o lo fa guidare: la trasmissione degli oggetti, simbolo dell’autorità.
Naturalmente questo si potrebbe anche interpretare in termini di fede; però a questo punto nel personaggio del padre non si vedono più tratti cristologici (a meno di non dilatare assai il senso della sua frase “Ho solo tre giorni”; ma questo viaggio, pur tragico, non pare riconducibile a una Passione). Il suo mistero appare più terrestre: qualche affare sporco legato alla misteriosa cassetta sepolta su cui il plot non dà spiegazioni. Durante il viaggio, dalle splendide inquadrature paesaggistiche di potente risonanza, il film si trasforma in un quadro psicologico sui rapporti parentali e sull’educazione, intesa in quel modo fortemente autoritario (ma funziona!) che è una tradizione del cinema russo/sovietico (ne è un esempio archetipico “Il cammino verso la vita” di Nikolaj Ekk). Ciò non impedisce al film risonanze universali e metafisiche, ma senza l’allusività un po’ astratta della parte precedente. E’ quindi un miglioramento.
Il viaggio porta a un’isola dell’immenso lago Ladoga. Stupende inquadrature, lunghe linee orizzontali fra cielo costa e mare. Remare sotto la pioggia. Un falò sulla spiaggia. C’è, nel film, un senso della natura quasi tattile, sensoriale, di odore e di luce. Un’immediatezza che riporta alla memoria un altro riferimento del cinema russo, il Boris Barnet di “In riva al mare più azzurro”: la distesa e potente semplicità degli ambienti ingloba e comprende le azioni umane, che assumono la stessa naturalezza ed essenzialità elementale.
Ora, è evidente come queste suggestioni si distacchino dalla linea tarkovskiana e metaforica dell’inizio. Sta in questa contraddizione il difetto di un film pure assai importante; si resta con l’impressione che i problemi siano stati posti all’inizio in un dato modo e poi sviluppati diversamente, seppure indubbiamente per il meglio, in una discrasia che lascia un’ombra sulla visione.

(Il Nuovo FVG)

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