martedì 8 gennaio 2008

Train de vie

Radu Mihaileanu

Il cuore di “Train de vie”, un altro film “ferroviario” (ancora la misteriosa attrazione fra il cinema e i treni), è eccentrico: sta nella prima parte, prima che il viaggio inizi. Sta nella descrizione calda, vivida, affettuosa di un mondo perduto: lo “shtetl”, ovvero uno di quei villaggi ebraici di lingua yiddish dell’Europa orientale che l’Olocausto ha spazzato via. Nel bel film franco-romeno-ungherese di Radu Mihaileanu gli abitanti - giacché stanno arrivando le truppe naziste - organizzano una gigantesca burla per la sopravvivenza, concepita dal savio matto del paese: si “autodeportano”, divisi in finti prigionieri e finti soldati tedeschi, su un treno nella speranza di raggiungere la Palestina attraverso l’URSS.
C’è in molto cinema est-europeo, da Jakubisko a Kusturica, questa verve bozzettistica: sempre sul filo del pericolo di cadere in un “poeticismo” di maniera, sempre in grado di offrire quadretti pregnanti. Qui ottime interpretazioni inappuntabili e spiritose danno corpo all’arrischiata invenzione, a pari merito con la musica di Goran Bregovic; da citare almeno Lionel Abelanski (il matto), Clément Harari (il rabbino) e il migliore, Rufus (Mordechai, il finto comandante nazista). L’unico serio difetto della messinscena è il fatto che tutte le scritte che appaiono (lettere, cartelli, un libro di fiabe) sono in francese.
Celebrazione di un universo scomparso, “Train de vie” eleva un monumento alla cultura ebraica ashkenazita dell’Europa orientale: ossia, lo humour amaro, l’arte di arrangiarsi, la tenacia davanti ai rovesci, la capacità di ricominciare. Ma l’abbandono del villaggio nel film non è meno tragico per essere volontario; la via della salvezza è la fine del mondo. Mihaileanu lo simboleggia nella scena dell’incendio del villaggio da parte dei nazisti, mostrandoci la distruzione degli oggetti materiali della vita e della memoria (le foto). Il viaggio degli ebrei verso “eretz Israel” si svolge sotto il segno del cambiamento; un sentimento di incertezza attraversa con soffusa drammaticità il film. Corrono verso un sogno, ma non sanno la forma che assumerà.
Il delizioso umorismo di “Train de vie” (i dialoghi - nella versione italiana, di Moni Ovadia - sono impagabili) è il genuino umorismo yiddish, che sfrutta la dilatazione fino all’assurdo di una premessa condivisa, e più in generale il gusto del paradosso. Del resto, come potrebbe non coltivare il paradosso un popolo che ha questa doppia condizione nel rapporto con la divinità, è il popolo eletto e insieme quello che ha sofferto più esilii e persecuzioni nella storia? “Qualche volta mi chiedo se sei un po’ sadico”, dice nel film il rabbino a Dio. E in “Train de vie” lo sfruttamento pirotecnico, sempre più avanzato, del paradosso porta a punte di comicità fulminante, come la scena della celebrazione, in cui il plotone di “soldati nazisti” schierato accanto ai “deportati” si inchina ritmicamente nella preghiera ebraica, sotto gli occhi perplessi dei partigiani che li spiano col binocolo. Riscrive - con ciò sottolineandole e rinnovandole - inquadrature viste mille volte, come il soldato tedesco che spinge la donna giù dal vagone col calcio del fucile (qui appunto per affrettarsi tutti insieme alla preghiera). Anche perché c’è pei “tedeschi” una contagiosità della parte: un altro dei fili che intessono questo film leggermente ondivago ma ricco è l’osservazione di come i finti nazisti entrino troppo bene nel loro ruolo, compreso il loro comandante Mordechai. Attraverso la lente deformante dell’invenzione assurda e burlesca, la parodia del nazismo (e contestualmente quella del comunismo, affidata allo sciocco Yossip) restituisce i due totalitarismi nella loro luce più autentica.
La conclusione ridefinisce il racconto senza distruggere il film, ma trasferendolo in una dimensione di affabulazione amara; anch’essa nel quadro di quello humour yiddish che dà forma a un film da non dimenticare.

(Il Nuovo FVG)

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