martedì 8 gennaio 2008

Notting Hill

Roger Michell

Un film come l’esile ma gradevole commedia inglese “Notting Hill” di Roger Michell sembra fatto apposta per dimostrare la teoria circolare della storia. Come lo vediamo oggi, sarebbe andato benissimo negli anni ’30, nei ’40, anche nei ’50 (ma già in senso più citazionistico). Dai ’60 in poi: impensabile o quasi. Oggi, riemerge l’antica forma: “Notting Hill” tratta il tema dell’amore fra la star americana Anna Scott / Julia Roberts e lo squattrinato libraio inglese William / Hugh Grant in termini di distanza siderale tra la diva e la gente comune, di incontro fra una dea dell’Olimpo e un mortale.
Julia Roberts, quando si immerge nel microcosmo dei “normali” londinesi, è gustosamente sottolineata nella sua diversità. L’abbigliamento “popolare” all’inizio - quel suo basco nero che forse diventerà un cult - è una pseudo-mascheratura, non fa che sottolineare la distanza. La sua apparizione è sempre epifanica. Inserendola nella casa - di povertà ultra-inglese - di William il film gioca su un effetto di straniamento; e allo stesso modo enfatizza il contrasto con la divertente materialità degli amici e parenti di Hugh Grant, interpretati da ottimi caratteristi provvisti di quell’apparenza quotidiana che ha sempre fatto la fortuna della commedia inglese. Guardate quegli splendidi educati sorrisi, con denti perfettamente regolari e bianchi, quando lei si trova a tavola fra i “comuni”: i sorrisi inconsciamente condiscendenti di una regina, la cui stessa regalità la preserva dall’imbarazzo.
In questa sua notevole interpretazione Julia Roberts trova un “glamour” di lontananza divistica alquanto inedito: giacché sul piano dello “stardom” odierno la Roberts si situerebbe sull’altro versante, quello - per così dire - democratico (in opposizione per esempio a Meryl Streep, “diva” fino alla consapevole caricatura). Julia Roberts marca questa dimensione interpretativa citando la famosa battuta di Rita Hayworth su Gilda (e anche questa entra in modo nostalgico-citazionistico, come da un altro mondo. Hugh Grant risponde: “Chi è Gilda?”).
E’, “Notting Hill”, un film metacinematografico, un film sul cinema? Soltanto in parte, sebbene abbia qualche vaga tentazione di darsene l’apparenza (nell’immaginario film di fantascienza interpretato da Anna Scott di cui vediamo un’inquadratura c’è un riferimento alquanto incongruo a Kubrick). Senza dubbio “Notting Hill” non sfrutta come potrebbe i rapporti fra la propria natura di cinema e il fatto di avere il cinema come argomento. Per esempio: nella conversazione compare l’informazione, autentica, che la percentuale di pelle per spogliarsi in una pellicola è definita dai contratti. Quando di lì a poco Julia Roberts si spoglia (castamente) per Hugh Grant, sarebbe stato divertente se il film avesse ripreso esattamente quelle clausole contrattuali - sarebbe stato un bell’esempio di circolarità - mentre invece l’inquadratura è casuale.
“Notting Hill” preferisce focalizzare su una generica descrizione satirica del divismo e soprattutto sulla scomoda posizione del convincente Hugh Grant in questo rapporto: anche il favore della dea non lo salva dall’essere un clandestino nel mondo di lei. Assolutamente deliziose, in questo contesto, la scene in cui si finge un intervistatore della rivista “Cavalli e segugi” ed è costretto a porre, su un argomento che non conosce, le domande più strampalate. Orbene, quando tempo fa la polizia americana sorprese Hugh Grant in auto con una prostituta di colore che gli aveva praticato un “blowjob”, questa prostituta divenne una star mediatica, e poté mollare il mestiere. Dopo una tale dimostrazione dell’efficacia salvifica del “corpo famoso”, è assai divertente vedere Hugh Grant far la parte dell’“inferiore” in un film che proprio della potenza mitica del corpo del divo fa il suo argomento. In entrambi i casi - nella realtà e nella fiction - siamo con lui. Vai, Hugh!

(Il Nuovo FVG)

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