martedì 8 gennaio 2008

Totò che visse due volte

Daniele Ciprì e Franco Maresco

Tanto all’inizio de Lo zio di Brooklyn quanto di Totò che visse due volte l’uomo con l’occhio di vetro (Francesco Arnao) se lo toglie e “guarda in macchina” con l’orbita vuota, osceno contraltare dallo schermo allo sguardo avido, e sempre colpevole, di noi spettatori. E’ Bunuel, naturalmente; ed è soprattutto un richiamo all’insostenibilità della visione - che Ciprì & Maresco traducono in raggelata bellezza formale: alta composizione delle inquadrature, nell’algido b/n di Luca Bigazzi, punteggiatura arcaizzante (iridi, tendine laterali). E’ un vedere senza speranza: “ostentare la caducità dei corpi senza pudore, la corporalità oscena”, dicono C&M (intervista di Goffredo Fofi in Lo zio di Brooklyn, Bompiani 1995, p.17). Il loro cinema racconta - in un tempo torpido, teatrale - un universo di mostri, “esseri ipoumani che si dibattono tra scaglie di luce e pozzanghere d’ombra” (Flavio De Bernardinis) vagolando, sbranandosi e maledicendosi, in un paesaggio oltre il mondo. Nel quale riconosciamo la versione degradata dell’estremo degrado, poiché quella di C&M è la povertà moltiplicata in mostruosità: riscritto nel loro universo l’infimo degrado sociale diventa simbolo ed espressione del male dell’esistere. Sotto il suo brulicare abietto giace, occhieggia, preme per salire alla luce e al dominio lo strato biologico inferiore degli animali (cani inselvatichiti, ratti, porci, blatte), parte integrante e stato ulteriore del degrado (in Totò che visse due volte, animale totem del primo episodio sono i maiali, del secondo i ratti).
C&M costruiscono il loro cinema ossessivo utilizzando autentici mostri umani, espressi nell’evidenza goyesca delle carni flaccide, dei ghigni, degli occhi loschi, delle bocche sdentate. Potrebbero far pensare addirittura a Tod Browning, ma in opposizione all’aggancio realistico di Browning e soprattutto, al suo fondo umanistico. I due cineasti siciliani spingono all’estremo l’estetica dell’orrore della carne: comoedia carnis, lo sguardo minuzioso, indagatore sulla degradazione fisica. Il loro doloroso spettacolo del corpo è grande barocco, molto siciliano: questa danza macabra della carne, che si estende e allarga all’intero universo, ben si apparenta agli ossari di Palermo o all’interminabile fila di statue grottesche di Villa Palagonia a Bagheria.
Le cronache tristi e ridicole di questi esseri sono una scarnificazione, una concentrazione dell’esistenza (C&M lavorano sul togliere; quello che nei loro filmati sembra un troppo è in realtà un dire). Una semplificazione che assume un tono quasi rituale: il modo insieme meccanico e rassegnato con cui queste creature svolgono i loro fatti, evidenziato dal carattere (automaticamente) epico della loro “recitazione”. In questi personaggi le emozioni, per quanto urlate, sono la riproduzione di un’emozione, come attraverso uno spesso filtro.
Anche il sesso. Si accoppiano senza gioia in tragici rituali parodici, siano l’eterosessualità, l’omosessualità, la bestialità (s’intende l’accoppiamento con animali) o la masturbazione. Questa dimensione negativa è riflessa nell’assenza assoluta delle donne sul piano del profilmico: in C&M esse sono sempre interpretate da uomini (in Totò che visse due volte, non solo è un uomo anche l’incarnazione del desiderio, la Grande Prostituta che ossessiona la folla, ma Camillo Conti è ancora più “maschile” e osceno degli altri).
Dunque i miserabili personaggi di questo mondo allucinato non hanno sentimenti alieni, bensì la traduzione deforme, parodistica, e come tale dolorosamente pietosa, dei nostri. In questo specchio deformante noi ci riconosciamo - e riconosciamo il nostro cinema; non solo la vita umana è degradata/parodiata, in Totò che visse due volte, ma il cinema stesso.
Parodia? Comicità dell’orrore? E dunque: “Come si permettono?”. Sì, il lavoro di C&M è comico, nel senso alto e doloroso dell’aggettivo. E’ il “punto di epifania demonica, il punto della torre tenebrosa e della prigione di dolori senza fine... mondo maledetto pieno di disgusto e di idiozia, mondo senza pietà e senza speranza” di cui parla Northrop Frye come fase finale dell’ironia tragica. Il loro comico è la nudità della sventura; di per sé la concentrazione mette a nudo quello che di profondamente tragico ha la comicità, quello che di profondamente comico ha la tragedia (fra parentesi: ce lo ricordava di recente un capolavoro quanto mai lontano dal cinema di C&M, Il buco - The Hole di Tsai Ming Liang).
Prendendo le mosse da Lo zio di Brooklyn, Totò che visse due volte si sposta verso una narrativa più definita. Il primo dei tre episodi che lo compongono è la versione ignobile di un martirio. Paletta (Marcello Miranda), un misero più in basso degli altri miseri, che quando arriva lo accolgono a secchiate di orina, compie un furto sacrilego su una statua di Gesù Cristo per pagarsi una prostituta, e per questo finisce, per ordine della mafia, al posto del Cristo nella teca, in vincoli e coronato di spine. Ecco il misconosciuto afflato mistico di C&M - la rappresentazione della divinità nell’ultimo fra gli ultimi (la crocefissione di Paletta verrà replicata nel finale del film) - e l’episodio riproduce con evidenza il Pasolini de La ricotta; accanto a Bunuel, Pasolini è il nume ispiratore del film (per inciso, in una ricognizione degli autori correlabili a C&M, credo che sarebbe interessante riflettere su un nome inaspettato: Ingmar Bergman).
Lo stupendo secondo episodio è la versione grottesca di un mélo (cui l’accumularsi e l’intersecarsi l’un nell’altro dei flashback aumenta il tono ossessivo), contorto e piegato nelle forme del male comico (non soltanto è amore ridicolo, ma falso amore, menzogna e avidità). Il carattere omosessuale del romanzo d’amore fra Fefè (Carlo Giordano, calvo e sdentato) e Pitrinu (Pietro Arcidiacono) si traduce in una ulteriore sottolineatura comico-parodistica in quanto il racconto cannibalizza i più bassi moduli del fotoromanzo eterosessuale (nei campi cantando, col velo da sposa, come in un miserrimo videoclip!); le battute caramellose, pronunciate nel solito modo straniato, instaurano una contraddizione esplosiva fra il parlato e il visibile.
Quello di Ciprì & Maresco è un linguaggio-mondo, autonomo e in sé conchiuso, come un cartone animato; il concetto si attaglia infatti all’arte figurativa, e C&M nel loro cinema/tv usano le scenografie degradate e i “mostri” umani per tradurvi la realtà come un disegno (però il carattere indexicale della pellicola, e non del disegno, dà a una simile operazione un rilievo particolare). Appartengono a quei registi che né ricostruiscono aristotelicamente la realtà per imitazione né cercano idealisticamente il barbaglio del Vero nell’immagine ma creano ex novo un proprio mondo interamente autoreferenziale; nel cinema d’oggi potremmo menzionare Peter Greenaway o Tim Burton (passando, se volete, per Russ Meyer...).
Questo implica il concetto di traduzione. “E domani è un altro giorno”, dice Fefè nel film. La ripresa della battuta di Rossella O’Hara ci ricorda che C&M potrebbero “tradurre” qualsiasi testo nel loro modo/mondo. Per l’appunto il terzo episodio di Totò che visse due volte, pur assai felice, mi sembra artisticamente inferiore agli esiti più alti e commoventi degli altri due, perché qui il linguaggio di C&M emerge maggiormente come traduzione, non di Via col vento ma del Vangelo; e in questo senso si avvicina pericolosamente alla parodia testuale (nulla di male, ma ciò gli darebbe un che di vicario), anche se in ultima analisi non lo è. Naturalmente d’altro canto bisogna considerare il peso dell’aura: una traduzione del Vangelo è in sé significante, specie in un linguaggio ultra-radicale come questo.
Salvatore Gattuso, già “Zio di Brooklyn”, appare nella doppia parte di don Totò, boss mafioso, e di un Totò/Gesù che viene battezzato in un Giordano/rigagnolo con spazzatura e pantegane, che è sempre furibondo e che manda tutti a farsi f... Non occorre sottolineare l’evidenza di questo doppio, esplicitato dall’identità del nome. “Abbiamo l’idea di un Dio ormai impotente, che non può fare più nulla” (intervista citata, p.43). Quello di C&M è un Gesù riluttante, ma inchiodato al suo ruolo (l’apatia di tutti i loro personaggi, questi automi della sventura). Nell’universo negativo degli autori, la divinità è l’ombra di se stessa, ridotta alla tenue capacità di far miracoli senza significato entro una prospettiva di sfruttamento e delusione: Lazzaro, mafioso sciolto nell’acido, una volta risuscitato corre in giro impazzito a far strage per vendetta, provocando la reazione della mafia. Su questo quadro si innestano momenti di delirante comicità (il Discorso della Montagna realizzato come una scenetta di Cinico tv, o l’Ultima Cena con le barzellette sconce, i discepoli menefreghisti e Giuda che per via del bacio viene preso per gay).
Alla fine di Totò/Gesù è negata anche la dignità della crocefissione (il che conferma che non si tratta di una parodia, perché allora non rinuncerebbe ad arpeggiare su questo climax: vedi la serie di gags in Brian di Nazareth dei Monty Python). Sulla croce ritroviamo invece i protagonisti dei primi due episodi, Paletta e Fefè, ribadendo quel rovesciamento mistico che riafferma la concezione pasoliniana del film; del resto, che la musica della conclusione sia lo stesso Bach di Accattone è una dichiarazione di paternità.
Ma in Accattone esisteva pur sempre il testimone metafisico (“Per una lacrimuccia...”). In questi cieli di C&M bassi, vuoti e assurdamente puliti - assurdamente se pensiamo al brulichio che guardano - non c’è pietà. La pietà, esterna a questo universo, è solo nell’occhio dello spettatore.

(Nickelodeon)

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