martedì 8 gennaio 2008

The Terminal

Steven Spielberg

Certo, tutti hanno i loro alti e bassi. In questi ultimi anni Steven Spielberg ha attraversato un periodo felice; ci ha dato un capolavoro assoluto come “Minority Report”, il quasi altrettanto importante “A.I. - Intelligenza artificiale”, e infine il notevole “Prova a prendermi”. Sapendo che la sua filmografia comprende anche opere deludenti (“Always”, “Hook”), potevamo aspettarci che fra tante ciambelle col buco ne uscisse una senza. Ma ecco che Spielberg, con “The Terminal”, viene fuori col film peggiore della sua intera carriera! Troppa grazia, Sant’Antonio.
Brucia tanto più, in quanto lo spunto è affascinante. Viktor (Tom Hanks) arriva dalla natia Krakozhia all’aeroporto di New York e tutt’a un tratto si ritrova apolide (gli USA non riconoscono più il suo paese in seguito a una rivoluzione); non può né andare oltre né tornare indietro; ridotto a una non-entità giuridica, deve restare nell’aeroporto, luogo di transito che diviene la sua casa.
Questo meraviglioso paradosso si disintegra in una deprimente povertà di svolgimento, un’aspirante commedia acida che come commedia non è mai divertente, e le occasioni di acidità le spreca. E’ un’altra conferma del calo di talento e professionalità fra gli sceneggiatori americani (qui Sasha Gervasi e Jeff Nathanson). Di suo, Spielberg sa metterci solo le luci bianche sparate contro l’obiettivo che sono il suo marchio visivo, persino grossolanamente esagerate in una scena. Manca al film tutta la capacità di costruzione a effetto e di fulminante “rilascio” comico ch’è patrimonio storico della commedia americana. Vedi per esempio come risulta laboriosa e prevedibile la scena iper-costruita dell’“una sola domanda” fra Viktor e il meschino dirigente Dixon (Stanley Tucci). Se “The Terminal” appare sbilenco sul piano logico, non è per la natura del paradosso, ma perché consiste in una serie di pesanti impalcature narrative macchinosamente costruite per ottenere di volta in volta un risultato che non si sa raggiungere più facilmente - come tirar su la torre di Pisa per poi abbatterla per schiacciare una noce.
Il film non sfrutta assolutamente le ricchissime implicazioni del suo argomento. Prendiamone una. Non ci sarebbe da stupirsi se la scelta di Tom Hanks come protagonista c’entrasse in qualche modo col suo ruolo di naufrago in “Cast Away” di Zemeckis: perché anche Viktor è un naufrago che deve risolvere da solo il problema della sopravvivenza. Ebbene, il meglio che Gervasi e Nathanson s’inventano è il sandwich fatto con tre crackers. Quanto sapevano far meglio Bob Hope o Danny Kaye, a proposito di buffi rimedi alla penuria!
Altro esempio. La battuta iniziale “L’America è chiusa” implica infinite possibilità di sviluppo satirico e polemico; ma il film sceglie sempre la via più superficiale.
Altro esempio. La storia d’amore dei due addetti all’aeroporto col loro matrimonio nella cappella bastava a suggerire il concetto dell’aeroporto come città, microcosmo che rispecchia in piccolo il macrocosmo della metropoli.
Altro esempio. La telecamera manovrata a distanza che si piega su se stessa (in atteggiamento assurdamente “umano”) per spiare Viktor consentiva un discorso sul tema del tecno-controllo, che avrebbe dovuto interessare al regista di “Minority Report”!
Altro esempio. Quando Dixon col gruppo delle guardie osserva le azioni di Viktor sulla parete di monitor, ecco che si rendeva possibile un rispecchiamento metafilmico fra la storia e gli schermi...
Tutto questo, Spielberg non lo fa. Ma allora cosa fa? Niente, se non una fila di scene superficiali, spesso faticose, alla fine retoriche, soverchiate dalla pessima musica di John Williams. Il nume tutelare di “The Terminal” è Frank Capra: già lo annuncia la battuta di un personaggio su Viktor che “difende il povero piccolo uomo” (buffa coincidenza che Viktor sia soprannominato “Capra” nel film). Ma Frank Capra si sarà rivoltato nella tomba a vedere questo film girato spiritualmente in suo nome.

(Il Nuovo FVG)

Nessun commento: