mercoledì 9 gennaio 2008

Terapia d'urto

Peter Segal

Ora che l’estate dirada le novità cinematografiche, girano ancora - purtroppo - due brutti film che testimoniano la decadenza di Jack Nicholson come attore. Tuttavia in “A proposito di Schmidt” di Alexander Payne (che, dopo un buon inizio con grigiori alla Arthur Miller, più va avanti più diventa confuso e furbetto) Nicholson - se gigioneggia come mimica - riesce comunque a rendere bene la pesante lentezza del corpo vecchio. Irredimibile invece è “Terapia d’urto” di Peter Segal, una delle commedie americane più “unfunny” degli ultimi anni, dove lo sfigato Adam Sandler deve sottoporsi per ordine del tribunale alla terapia dello psicoanalista Nicholson che (apparentemente) è un folle. Un film di prevedibilità totale (nonostante la rivelazione finale di un retroscena forzato, implausibile e attaccaticcio), la cui bizzarra sgradevolezza è probabilmente dovuta al folgorante misto di incompetenza e pretenziosità. Una carenza d’invenzione che riposa letargicamente sui luoghi comuni (solo il dettaglio di contorno delle due pornostar lesbiche ha un minimo di vivacità). Un’incapacità dilettantesca dello sceneggiatore David Dorfman di esplorare le potenzialità comiche di qualsiasi situazione; così la comicità resta sospesa in aria, resta a livello d’intenzione, un “vorrei ma non posso” che fa pensare alle peggiori esperienze della tv italiana. Alla pesantezza dei dialoghi interminabili fa riscontro la regia soporifera di Peter Segal, il quale evidentemente è sì e no in grado di dirigere comiche demenziali (“Una pallottola spuntata 33 1/3”, “La famiglia del professore matto”), ossia film dove sceneggiatura e performance attoriale fanno premio sulle esigenze di regia. Se si allarga alla commedia, per di più con un copione come questo, va a fondo. Perfino il casting è malsicuro: vedi la bellona che Adam Sandler, nonostante sia fidanzatissimo, è costretto da Jack Nicholson ad approcciare al ristorante; lo sviluppo ulteriore avrebbe avuto senso solo se fosse stata utilizzata un’attrice sexy ma assai prosperosa, viste le sue battute sul complesso di essere grassa. Questa sembra uscita dalla pubblicità Dietorelle, e si produce un anticlimax totale.
Fa quasi dispiacere veder apparire alla fine in veste di deus ex machina, nella parte di se stesso, un autentico eroe americano come l’ex sindaco di New York Rudy Giuliani; peraltro bisogna riconoscere che quando si è prestato non poteva sapere in quale brodaglia sarebbe andato a finire - sebbene forse, conoscendo Sandler, poteva immaginarlo. Una pletora di commedie giovanili attesta che Adam Sandler non sa recitare (non ignoro che ha girato “Ubriaco d’amore” con Paul Thomas Anderson: sarà interessante vederlo, e riparlarne). Muove un po’ la bocca secondo il Manuale del Piccolo Attore, ma l’occhio rimane vuoto e inespressivo: sembra che al posto degli occhi abbia palle di vetro come gli animali imbalsamati. Quanto a Jack Nicholson, è tragico vedere questo grande attore ridotto alla caricatura “hammy” di se stesso. Squaderna eternamente i gesti e i tic del suo personaggio attoriale, come il sopracciglio che si solleva mefistofelico, e sebbene l’intenzione in questo caso sia ironica l’effetto è di desolante vuota meccanica ripetizione.
Per punizione Segal & Dorfman dovrebbero essere condannati a vedere, ammanettati alla poltrona, sessanta commedie screwball americane degli anni ’30 e ’40: imparerebbero il mestiere. Jack Nicholson andrebbe condannato a vedere la filmografia completa di Vincent Price: un magnifico e gigionesco attore che invecchiando affinò la propria “marca recitativa” in un delizioso manierismo autocitazionistico. Price sì che ha saputo fare nella sua recitazione degli ultimi anni il monumento di se stesso.
Adam Sandler infine andrebbe condannato a vedersi 60 ore di documentari sulla bellezza del lavoro nei campi, nella speranza che si decida a rendere all’agricoltura quelle due braccia che le ha rubato.

(Il Nuovo FVG)

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