mercoledì 9 gennaio 2008

Il gladiatore

Ridley Scott

Se dobbiamo scegliere una scena madre de “Il gladiatore” - magnifico film con cui Ridley Scott torna alla grandezza - nel senso proprio di scena generatrice, che contiene “in nuce” tutto il film, è questa: i gladiatori, fra cui Maximus (Russell Crowe), sono arrivati per la prima volta a Roma; ai loro occhi stupefatti si rivela la visione del Colosseo, in una panoramica soggettiva dal basso in alto, e la sua magnificenza è sottolineata dal volo di uno stormo di uccelli neri. Realizzato in computergrafica al pari dell’edificio; ciò che qui il film celebra è ovviamente una doppia meraviglia: quella dei gladiatori di fronte all’edificio mirabile, quella degli spettatori di fronte all’arte illusionistica del cinema. “Creare l’ambiente è quello che mi eccita di più quando faccio un film”: vecchia dichiarazione di Ridley Scott (risale addirittura a “I duellanti”). Creare l’ambiente non come mero gusto scenografico, bensì come base per attivare quello che è il nucleo del suo cinema: la dialettica della visione.
E nella lotta fra Maximus e Commodo (Joaquin Phoenix) “Il gladiatore” non contrappone soltanto due politiche, libertà contro totalitarismo, ma due modi del vedere. Lo visione interna alle cose di Maximus e di Marco Aurelio (Richard Harris), entro una concezione dell’azione come “praxis”, della politica come fabbrica di civiltà (intesa in senso imperialistico, in accordo con la concezione romana). La visione esterna di Commodo (colui che fugge dalle battaglie): guardare, latino “spectare”, “spectaculum”: Commodo intende trasferire integralmente l’autoconsapevolezza romana sul piano dell’immaginario, facendo dello spettacolo gladiatorio il perno della civiltà.
Sono due opposte concezioni etiche prima che politiche (tutto il cinema di Scott mette in scena dualismi radicali). E’ per questo che il film assume l’arena dei combattimento come luogo centrale; onde il palazzo imperiale e gli alloggi dei gladiatori, dove alternativamente si svolgono le trame preparatorie, divengono entrambi retroscena dell’arena. Questa è il luogo di confronto delle due concezioni, che colà devono materializzarsi alla fine in uno scontro fisico fra i due che le incarnano.
Morendo, Maximus potrebbe ripetere il grande discorso di Rutgen Hauer in “Blade Runner” (“Io ho visto cose che voi umani...”). E’ importantissimo in Ridley Scott il concetto del “peso di aver visto” (persino il bruttissimo “L’Albatross” conteneva una grande pagina sulla terribilità della visione, la morte della moglie sotto gli occhi del marito, intrappolata nella nave che affonda). Estremizzando la visione, “Il gladiatore” ci porta non solo nel sogno e nel delirio ma nell’oltretomba. E’ la porta dell’aldilà che vediamo varcare alla fine, è l’aldilà il campo di grano che la mano accarezza nell’apertura: annuncio adeguato a un film epico non vitalistico ma mortuario. E’ un film dove ci si muove nell’ombra della morte; il motivo verbale ricorrente è quello della morte inevitabile ed onorevole (“Ciò che facciamo da vivi riecheggia nell’aldilà”). Anche in funzione di quest’atmosfera cupa, mentre di solito nel “peplum” romaneggiante è diffuso il rosso (mantelli, laticlavi, tendaggi), qui, fin dal mantello di Marco Aurelio nella battaglia iniziale, il colore dominante è il blu. Un blu cupo, freddo, presente anche nei laticlavi senatorii. Il rosso è pressoché limitato al sangue e ai petali di rosa, sparsi sull’arena, che lo imitano.
Ridley Scott intesse questi motivi in un’orchestrazione poderosa, ponendo le speranze di una rinascita del cinema “peplum” all’interno della deriva dei generi. Infatti la totale antistoricità de “Il gladiatore” - costumi arabi nell’Africa romana, i laticlavi citati, balestre ed elmetti saraceni e maschere barocche per i gladiatori, eccetera - pertiene a un film che assume consciamente (nel senso che giustamente non se ne preoccupa) l’antistoricità naïve del “peplum” originario. “Il gladiatore” è un sogno di Roma ridipinta attraverso la fantasy.

(Il Nuovo FVG)

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