mercoledì 9 gennaio 2008

Hannibal

Ridley Scott

Sebbene abbiano un bell’impatto emotivo, non bisogna cercare l’essenza di “Hannibal” di Ridley Scott nelle sue famose scene raccapriccianti (il pasto umano dei maiali, il cervello cucinato in presenza del donatore), bensì nelle ombre, nelle pieghe del film. Per esempio, il discorso tipicamente scottiano sul peso e l’irreparabilità del vedere: per questo non è un semplice pezzo di bravura la splendida scena della sparatoria nel mercato all’inizio. Negli occhi incupiti di Clarice Starling (purtroppo Jodie Foster, indisponibile per il sequel, è stata sostituita dalla legnosa Julianne Moore) resterà il segno di quel disastro, causa della sua disgrazia nel FBI: è come per tanti altri eroi del cinema di Ridley Scott, i quali hanno visto troppo, e si tengono attaccati alla vita più per una rabbiosa oscura determinazione che per la speranza di lavarsi un domani dagli occhi la persistenza tormentosa della visione. La scena che meglio esprime questo concetto è quella brevissima in cui, su un flashback auditivo, vediamo turbinare vorticosamente la collezione di foto di orribili morti e delitti, nonché foto di Hannibal, che Clarice ha appeso al muro del suo scantinato-ufficio.
E’ poi da segnalare il nascosto incrocio del thriller col mélo, come Ridley Scott - uno dei primi a muoversi lucidamente all’interno della “deriva dei generi” - aveva già fatto in “Chi protegge il testimone”. Infatti “Hannibal” è una danza d’amore di Hannibal Lecter intorno a Clarice (evidenziata in una bella sequenza di pedinamento ch’è quasi una “mise en abyme” dell’intero film). Hannibal e Clarice sono due aristocratici in un mondo democraticamente disgustoso: inevitabile che si incontrino. E’ indicativo che in un film dove, attraverso la sceneggiatura di David Mamet e Steven Zaillian, si segue abbastanza da vicino il romanzo di Thomas Harris, la sua conclusione non molto convincente sia opportunamente cambiata, raggiungendo un sorprendente tono di sacrificio mélo.
Certo una possibilità pertinente era che Hannibal mangiasse Clarice. Sta bene la teorizzazione che sentiamo riferire dal suo vecchio guardiano, “Una volta mi disse che quando era attuabile preferiva mangiare i maleducati”, sta bene la dichiarazione di Hannibal nel film, “E’ naturale il desiderio di assaporare il nemico”; però rischiano di sviare. In realtà è molto più importante il cannibalismo d’amore, e lo ritroviamo nei doppi sensi su “affamato” e “nutrimento” dei raffinati discorsi di Lecter a Firenze. Gli è che col passare degli anni Thomas Harris si è innamorato del suo personaggio, che non è più gelidamente minaccioso come prima. Nei suoi tre romanzi il dottor Hannibal Lecter appare prima come incarnazione dell’Altro assoluto (“Red Dragon”); assume una posizione deliziosamente ambigua ne “Il silenzio degli innocenti”, dove (come il Mefistofele di Goethe) facendo il male opera il bene; in “Hannibal” assurge a una dimensione quasi di eroe. Il suo cannibalismo è un servizio di pubblica utilità: quando un cannibale mangia solo i cattivi, è pronto per la beatificazione. C’è un dettaglio indicativo, sia nel romanzo che nel film: Hannibal minaccia di mangiare la bella moglie del poliziotto corrotto Pazzi, ma non lo fa (ed è un vero peccato. Francesca Neri non sarà gran che come attrice, ma a cena dev’essere squisita).
Con “Hannibal” Ridley Scott ha fatto un film meno affascinante de “Il silenzio degli innocenti” sul versante della figura di Hannibal (ma i motivi e i presupposti di Jonathan Demme erano diversi) e meno importante del suo recente capolavoro “Il gladiatore”. Nondimeno, un buon film. Una regia magistrale, con una macchina da presa mobile e intensa (che magnifico carrello su Giancarlo Giannini che cammina nella piazza di Firenze!), un ottimo montaggio, e la particolare bellezza nell’uso della luce (cavallo di battaglia di Ridley Scott) ci danno un’opera tesa, avvincente e - termine inevitabile, parlando di Hannibal - saporita.

(Il Nuovo FVG)

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Che straordinaria recensione! Ho la pelle d'oca. Purtroppo non riesco a tenere gli occhi aperti su certe scene, per tale ragione non ho mai visto i film della trilogia. Dal primo vago impatto con "Red Dragon" (il libro), tuttavia, mi sono trasformata in un fiume in piena verso gli altri thriller di Harris. Mi piacerebbe conoscere le differenze tra il finale del film "Hannibal" e l'omonimo romanzo.

Grazie

Francesca

giorgioplac ha detto...

Cara Francesca,
grazie per il gentile parere! Anche se è passato molto tempo da quando ho visto il film (ho postato di recente, aprendo il blog, tutto il mio archivio non cartaceo) ricordo bene il finale amoroso del libro. E' vero che a un certo punto proprio in queste pagine Hannibal viene definito "il mostro", tuttavia, questa conclusione mi è sempre sembrata - come dire - artificiosa e dolciastra. Non dico impossibile (oh beh...), dico che Harris non ce la fa credere. E così a mio parere rovina un bel romanzo - sebbene inferiore ai primi due - culminante nella fantastica scena del pranzo col cervello (migliore che nel film, e si capisce, il libro può anche darti la ricetta). Il film di Scott abbandona tutta questa sweet crap finale e per questo lo preferisco. Devo aggiungere in verità che un breve giro su Internet mi ha fatto degli interventi di buon livello che, al contrario, considerano un grave difetto del film proprio la modifica del finale - uno lamenta che al film sia stato tolto il suo "charnel house fairy tale ending". Mah! Ce ne vogliono per tutti i tipi per fare un mondo - o, direbbe Hannibal, un tagliere.
Un caro saluto
Giorgio