mercoledì 9 gennaio 2008

Black Hawk Down

Ridley Scott

Lo sconvolgimento di aver visto, quel peso schiacciante della visione che è uno degli assi portanti del cinema di Ridley Scott, rende allucinati i visi da ragazzini dei soldati americani nella nemica Mogadiscio del fallito tentativo di arrestare il “signore della guerra” Aidid, in “Black Hawk Down”: un film importante, ma in ultima analisi minore nella filmografia di Scott. Ciò per la contraddizione fra l’occhio del regista e i limiti della sceneggiatura di Ken Nolan nelle caratterizzazioni dei personaggi, che sfiorano lo scontato, lo stereotipo. Così pure le scene della battaglia, dove Ridley Scott eccelle, pur coprendo la quasi totalità del film soffrono della debolezza dell’impianto retrostante: non si colgono nel film né la solennità epica né il senso di fatalità che ci si potrebbe aspettare - né viceversa vi sono caratterizzazioni di nerbo in grado di fondare un punto di vista asciuttamente cronachistico.
Per l’appunto è nella frenetica evocazione dello scontro a fuoco che Scott (e naturalmente il suo sceneggiatore, migliore su questo terreno che nelle raffigurazioni personali) giocano le carte migliori. Scott ama sempre inscenare la contrapposizione di dualismi radicali. La cifra di “Black Hawk Down” è l’opposizione fra una dimensione verticale e una orizzontale dello sguardo. Verticale: le splendide riprese aeree - in cui lo sguardo “mostrante” della macchina da presa si identifica con lo sguardo soggettivo dall’elicottero militare sopra Mogadiscio - tracciano una topografia bellica di grande effetto: la città si rivela perpendicolarmente allo sguardo che segue il reticolo delle strade popolato di puntini neri di umanità combattente (viene da ricordare per un simile sguardo “topografico”, realizzato con altri e minori mezzi, e quindi più eroico, il “Lawrence d’Arabia” di David Lean). Collegato ai monitor del centro di comando, questo sguardo dall’alto è lo sguardo del controllo - e dapprima sembra trionfare nella bella scena dell’auto segnata, guidata da un collaboratore e seguita dalla videocamera dell’elicottero, che deve indicare agli americani dov’è il covo di Aidid. Ma poi rivela la sua fragilità. In connessione con la caduta degli elicotteri che ne erano portatori, diventa sui monitor lo sguardo della frustrazione e dello sconforto.
All’asse verticale si contrappone la dimensione orizzontale dello sguardo e del film, coi soldati americani intrappolati nelle strade di Mogadiscio, in un autentico capovolgimento della prospettiva: è la situazione della preda; lo sguardo è offuscato e angoscioso, sotto l’ossessionante fuoco continuo del nemico ad altezza d’uomo o dall’alto di finestre e cornicioni. La loro disperata battaglia è narrata dal punto di vista interno con una focalizzazione in soggettiva - non intendo evidentemente in senso visivo - dei soldati; il film è efficace nel rendere l’impatto psicologico interiore della battaglia (quei momenti di stupefatta sospensione del tempo).
Qui un punto notevole di “Black Hawk Down” è la caratterizzazione, o meglio la non-caratterizzazione, del nemico. I miliziani di Aidid, che attaccano come una marea crescente gli americani intrappolati, appaiono come entità aliene in una specie di moltiplicazione onirica, una silenziosa propagazione di nemici nella logica geometrica degli incubi. Più ne cadono più sembrano moltiplicarsi: il riferimento che viene subito in mente è il cinema di John Carpenter, da “Distretto 13 - Le brigate della morte” a “Fantasmi da Marte”. Bene lo mostra una bellissima inquadratura verso la fine, quando “dietro” la fuga dei soldati americani vediamo come materializzarsi nella profondità di campo, in una nebbia di aria surriscaldata, le sagome astratte e spettrali di una folla silente di nemici. E dall’astratto l’emergere improvviso del nudo concreto (come un bambino-guerriero piangente sul corpo del padre ucciso) risulta ancor più uno shock.

(Il Nuovo FVG)

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