mercoledì 9 gennaio 2008

Gangs of New York

Martin Scorsese

Superiorità del cinema sul romanzo! Mentre i narratori si dannano nel tentativo di darci il Grande Romanzo Americano, ossia l’affresco potente e totale dell’America nello spazio e nel tempo, il Grande Film Americano l’abbiamo avuto più volte. L’ultima (e un capolavoro del cinema in assoluto) è “Gangs of New York” di Martin Scorsese: nei bassifondi di New York all’epoca della Guerra di Secessione e dei tumulti contro la coscrizione obbligatoria si scontrano le bande dei nativi, guidati dal Macellaio/Daniel Day-Lewis, e degli immigrati, guidati da Amsterdam/Leonardo Di Caprio, vendicatore del padre dopo sedici anni.
“Gangs of New York” è evidentemente il “Nascita di una nazione” di Scorsese. Ma fra i tanti riferimenti che vengono opportunamente citati in relazione al film, da Griffith a Dickens, mi pare non sia stato particolarmente ricordato “I cancelli del cielo” di Michael Cimino: mentre invece le similarità sono impressionanti. Non solo per la materia. Come “I cancelli del cielo”, “Gangs of New York” è un film titanico e debordante, che si allarga a cerchi concentrici, vorrebbe abbracciare (pur in relazione a New York) anche la guerra e i campi di battaglia, spostare i confini dell’affresco sempre più in là, in un ampliamento prospettico sempre maggiore, tendenzialmente aprirsi a tutta la sanguinosa macchina della Storia. Proprio ciò, come a suo tempo per Cimino, ha reso perplessi molti critici - perché il loro sguardo non è capace di abbracciare una tale vastità.
Come in “Guerra e pace”, nel chiuso di una stanza si allarga l’infinito: ossia, l’impasto di carne e sangue dell’esistenza individuale trapassa nella storia di una nazione perché ne è l’humus. Ecco la conclusione del film, dove un montaggio riassuntivo di un secolo e mezzo fa sorgere la New York di oggi dietro al piccolo cimitero: chiusura che richiama un grande film degli anni ’30, “San Francisco” di W.S. Van Dyke, che, certo con meno forza, mostrava lo stesso legame fra la città (civitas) e le sue peccaminose radici.
Sotto la rievocazione storica rosseggia la materia epica. Basta vedere lo scontro che apre il film (prima la solenne enunciazione dei nomi, poi la grandiosità dei discorsi) per riconoscere Omero. E dietro l’epica sta il mito, l’affabulazione popolare irlandese (sembra uscita dalla saga di Cu Chulainn la figura di Maggie l’Arpia che colleziona orecchie mozzate). Nel modo più lineare e diretto, lo dice la voce narrante del protagonista annunciando il suo racconto: “In parte, diciamo a metà, me ne ricordo; e il resto... il resto l’ho preso dai sogni”.
“Gangs” è attraversato dall’iconografia religiosa di Scorsese, dal suo costante interrogarsi sulla speranza e la Grazia. Ma sotto il cristianesimo ostentato dai contendenti si aprono squarci su un sostrato pagano antichissimo. Vedi il coltello che il Macellaio lascia nelle mani del nemico ucciso con onore: “Ti potrà servire al di là del fiume”. E il taglio di rasoio che Amsterdam si fa sulla guancia prima dello scontro finale non rappresenta solo una circolarità cinematografica (un simile taglio del padre apre il film) ma anche il tornare del tempo su se stesso: un “eterno ritorno” precristiano e pagano.
Infine, l’elemento tragico. Non è che il film sia teatrale o, men che mai, brechtiano; ma il cinema moderno mantiene la consapevolezza metacinematografica dell’esistenza non occultabile della messa in scena, e tutto “Gangs of New York” manifesta una consapevolezza del teatro. Vi alludono anche l’accenno all’Opera di Pechino e il “numero” sul palcoscenico del Macellaio come lanciatore di coltelli con Jenny/Cameron Diaz; ma soprattutto “Gangs of New York” - canto di vendetta, di padri e di re, con Amsterdam che s’introduce presso il Macellaio per vendicare il padre e diviene un suo figlio sostitutivo mentre si prepara a ucciderlo (indimenticabile scena di un bacio deposto con pudore sui capelli!) - è Shakespeare. Del resto, proprio un personaggio shakespeariano dice: “...noi siamo della materia di cui son fatti i sogni”.

(Il Nuovo FVG)

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