mercoledì 9 gennaio 2008

Al di là della vita

Martin Scorsese

Ventiquattro anni fa Paul Schrader, sceneggiatore, e Martin Scorsese, regista, ci portarono in un viaggio infernale per le strade di New York con “Taxi Driver”. Il calvinismo di Schrader e il cattolicesimo di Scorsese si univano nell’orrore della metropoli condannata: le vestigia dell’Inferno ritornavano ossessive lungo il film, nelle luci rosse dei neon riflesse sul viso di Robert De Niro, negli sbuffi di fumo bianco che salivano dai tombini, nel girovagare sessuale come pesci in un acquario delle prostitute.
Ora nuovamente Schrader e Scorsese ci trascinano in un drammatico, lancinante e solenne viaggio per le strade e gli antri di una New York-Inferno, dipinta al colmo del suo degrado nei primi anni ’90, nel capolavoro scorsesiano “Al di là della vita”. Di nuovo la dannazione della metropoli - “l’aere perso” di Dante - nei neon e nel buio di New York; di nuovo i fumi e le puttane di “Taxi Driver”, ma ancora, pareva impossibile, più sozzi e disperati; e sfocia, l’orrore della metropoli, nell’autentica bolgia dantesca della sala di accettazione dell’ospedale al quale Nicolas Cage - paramedico “burned out” alla guida di un’ambulanza del pronto soccorso notturno - porta le vittime e le povere parvenze di umanità che raccatta per strada.
Ombre sui visi scavati di Cage e dei suoi compagni di viaggio, di follia e di discussione (i dialoghi di Paul Schrader nascondono sempre una densa solennità enunciativa all’interno del realismo). Un compagno diverso per ognuna delle tre notti in cui si scandisce il film: John Goodman, Ving Rhames, Tom Sizemore, ovvero tre diversi caratteri e tre diverse vie di resistenza all’orrore in cui si muovono: rispettivamente la progettualità, la mania religiosa, l’aggressività. Tutte vie sbarrate a Nicolas Cage, che è ossessionato e - nella voce “over” amata da Scorsese - ci parla delle anime dei trapassati furiose per l’orrore in cui hanno dovuto morire, e della propria ossessione di salvare le vite (“Bringing Out the Dead”, richiamare i morti, s’intitola il film nell’originale). “Salvare la vita a qualcuno è come essere innamorati - la droga migliore del mondo... Perché negare che per un momento tu sei stato Dio?”. Da mesi questo non gli succede, e il fantasma di una ragazza che non è riuscito a salvare lo perseguita apparendogli in tutti i visi, sempre più spesso, fino alla spaventosa moltiplicazione poco prima del finale.
Il viaggio nel “cuore di tenebra” della città si identifica col viaggio nella tenebra interiore; la follia e la disperazione del protagonista duplicano quelle esterne a lui. Scorsese dà un nuovo saggio della sua stupefacente naturalezza espressiva, mantenendo il suo occhio cinematografico contemporaneamente interno ed esterno al personaggio: “Al di là della vita” è un alto esempio di cinema visionario. Dove, con uno strabiliante rovesciamento narrativo, il protagonista scopre la salvezza in quello che sembra il suo contrario: terminare un’esistenza invece che trattenerla, ponendo fine a un caso di accanimento terapeutico. Di qui gli verrà la pace, in un dialogo finale col fantasma della ragazza prima che questo lo abbandoni.
Come tutto il cinema di Martin Scorsese, “Al di là della vita” è una dolorosa riflessione sulla disperazione e la Grazia. Il film è percorso da continui riferimenti religiosi e metafisici (da notare il parodistico miracolo della nascita di due gemelli da una “vergine” latinoamericana di nome Maria). La continua presenza religiosa nel cinema di Scorsese si materializza nel percorso di Nicolas Cage, scandito in tre giorni come una Passione - giovedì, venerdì, sabato - che si conclude in un’autentica Pasqua, una resurrezione, nella luce chiara di una domenica mattina, quando lo vediamo abbracciato a Patricia Arquette in un’immobilità silenziosa (sigillata da un fermo immagine) che contrasta radicalmente col rumore e il movimento folle e frenetico che ci hanno accompagnato per tutto il film.

(Il Nuovo FVG)

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