Kevin Lima e Chris Buck
Tarzan, o il problema dell’identità. E’ questo il succo del romanzo (1912) di Edgar Rice Burroughs: allora in veste di paradosso (un gentiluomo bianco che dichiara “tranquillamente” alla fine del libro “Mia madre era una scimmia”); oggi, nell’occidente di fine secolo, un problema aperto. Ha un senso che proprio nel 1999 lo riporti sullo schermo uno splendido cartoon Disney, diretto da Kevin Lima e Chris Buck.
Tarzan è in tutti i sensi l’uomo del confine. Alla conclusione, realizza in sé l’unità dei due mondi, quello naturale e quello civilizzato: ossia, l’eterno presente e la storia. Perché la sua civilizzazione è proprio l’appropriarsi della storia. Dettaglio interessante, per via visiva: “riassunta” nella meravigliosa sequenza - ovviamente metacinematografica - della lanterna magica e d’un altro apparecchio del pre-cinema (“Tarzan” è uno dei cartoons Disney più articolati e più colti). Coerentemente col concetto base, l’incontro di Tarzan con Jane è uno scambio. Se Jane “civilizza” Tarzan, si può dire che lui “de-civilizza” lei, perfetta signorina vittoriana, innestando un processo di liberazione (simboleggiato dal vestire) che comprende implicitamente anche il sesso: nel primo incontro, quando lui le manipola il piede nudo e le alza la gonna per guardare sotto, sotto lo humour è implicato un erotismo abbastanza inconsueto per la Disney.
Una caratteristica importante del film è il suo carattere selvaggio. Nessuna zuccherosità. Nella foresta la morte è la morte, come mostra la sequenza assolutamente horror dell’uccisione del cucciolo di gorilla all’inizio: assolutamente horror, dico, perché il montaggio alternato del leopardo che insegue e dei genitori che accorrono ha, con la sua connotazione griffithiana, l’effetto di illuderci sulla salvezza in arrivo. L’horror è sempre stato una presenza forte nei film Disney; in questo senso “Tarzan” è uno dei più impressionanti, soprattutto per la sua brutale velocità. Infatti una caratteristica del film è la sorpresa, l’irruzione improvvisa della paura (non necessariamente da parte nemica: vedi l’improvviso battersi il petto del gorilla maschio). Un tocco di puro orrore disneyano è la scoperta delle orme di leopardo insanguinate in casa dei naufraghi, che ci racconta della loro fine. Altrove, l’horror si fonde con la comicità pur restando terribilmente fisico, nella scena geniale degli elefanti spaventati che in cerchio calpestano l’acqua in cui nuota Tarzan bambino.
La realizzazione grafica è indubbiamente assai bella, sia negli sfondi - “Tarzan” fa per la foresta pluviale quello che “Il re leone” aveva fatto per la savana - che nella definizione dei personaggi. Da notare che il viso di Tarzan bambino è influenzato dai cartoni animati giapponesi (occhioni e bocca), a differenza di quello adulto - splendide le due ellissi sulla sua crescita - lungo e ironico. Jane, più vicina alla tradizione disneyana, ha una fisionomia spiritosa alquanto francese. Nel cattivissimo Clayton troviamo un’eco classica, di Capitan Uncino. Ma l’aspetto grafico più importante è il movimento, che si nutre della tridimensionalità raggiunta grazie a nuove realizzazioni di computer graphics. Così “Tarzan” è caratterizzato sul piano linguistico dallo zoom avanti e indietro, sul piano narrativo dalle figure del volo e della caduta (con emozionanti riprese semisoggettive): sono forme collegate, entrambe rese possibili da un’inedita profondità di campo.
A parte un dettaglio fastidiosamente “politically correct” - il fatto che in quest’Africa Disney non c’è manco l’ombra di un portatore negro - il neo del film è l’imprevedibile bruttezza delle canzoni, che fa a pugni con un doppiaggio ben realizzato (la voce da maschiaccio dell’amica gorilla Terk è irresistibile). Ma la modestia delle canzoni non rovina un film corposo, spiritoso, emozionante: il miglior “Tarzan” dai tempi di Johnny Weissmuller in poi.
(Il Nuovo FVG)
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