lunedì 7 gennaio 2008

Spider-Man 2

Sam Raimi

L’hanno già detto tutti, ma è proprio vero: “Spider-Man 2” di Sam Raimi (con la sostituzione dello sceneggiatore del primo film, David Koepp) è assolutamente più bello del precedente. E non è questione della bravura professionale di Raimi: quella c’era anche nel divertente “Spider-Man” originario; ma c’era anche una freddezza, un vago sentore di accademico (o di servizio?) che gli tarpava le ali. “Spider-Man 2” ha tutt’altre doti di originalità e vivezza. E’ chiaro che una sceneggiatura più felice (di Alvin Sargent, Alfred Gough e Miles Millar) ha consentito a Raimi di tirar fuori il meglio di sé.
Poiché da Raimi non ci bastava uno “Spider-Man” ben raccontato: coll’episodio 2 abbiamo finalmente uno “Spider-Man” realmente raimiano. Finalmente vivo e personale: in “Spider-Man 2” sì che Raimi riflette sul fumetto! Fino a metterlo in crisi. Se è vero, come è vero, che un supereroe parte in primo luogo da un super-costume (la pietra angolare della sua identità), il film di Raimi porta al punto massimo di tensione l’incarnazione cinematografica del mito, attraverso lo smascheramento. Nel corso del film, Spider-Man (Tobey Maguire) viene visto senza maschera praticamente da tutti: prima dai viaggiatori che ha salvato, poi dall’ex amico Harry Osborn, poi da Octopus, poi dalla donna amata (Kirsten Dunst)... L’elemento totemico dell’identità nascosta viene incrinato. Ciò è coerente con un film che, in modo ben più convincente del primo, è una riflessione angosciosa e sarcastica sull’identità del supereroe: i superpoteri come maledizione; l’alienante contraddizione tra la gloria di una maschera senza volto e un’identità segreta condannata a essere priva di sostanza; la frustrazione sessuale che ne consegue. Né questa riflessione si risolve in una facile “diminutio” ironica. Vedi come, dopo la lotta con Octopus, i passeggeri del vagone del metrò sollevano in alto il corpo di Spider-Man smascherato e privo di conoscenza: con la stessa solennità del corpo morto di Laurence Olivier in “Amleto”.
Oltre alla bellezza visuale e narrativa generale (per una volta le scene di suspense sono davvero inquietanti), Sam Raimi costella il film di autentici pezzi di bravura. Cito solo un’immagine terribile e memorabile nella scena dell’esperimento fallito in cui il dottor Octavius si trasforma in Octopus: il volto urlante della moglie di Octavius si riflette in uno dei frammenti di vetro che l’esplosione sta proiettando verso di lei. Un’inquadratura che entra di diritto in un ipotetico “the best” di Raimi.
E’ un film fresco e vigoroso, fin dagli eleganti titoli di testa fumettistici conclusi da un delizioso gioco metalinguistico: la Mary Jane disegnata sfuma apparentemente nella “vera” Mary Jane/Kirsten Dunst del film, ma invece si rivela essere solo la sua foto su un cartellone pubblicitario.
Nel vivace gioco interpretativo, gli interpreti secondari surclassano i due protagonisti (Kirsten Dunst è poco espressiva, ma anche Tobey Maguire non è che sia il massimo). Rosemary Harris è una zia May umana e credibile; J.K. Simmons nel ruolo di J.J.J. è spiritosissimo. Soprattutto, il grande Alfred Molina supporta con un’ottima interpretazione la realizzazione di un “villain” dalla meravigliosa concezione visuale.
Il personaggio è fornito, come nel fumetto, di quattro smisurati bracci artificiali. Nel film questi terminano in una sorta di teste meccaniche, dall’aspetto serpentino: e nell’espressione ora aggressive, ora supplichevoli, ora incerte. Meccanismi “serpentizzati”, ma in un senso paradossalmente antropomorfico, dato che hanno espressioni significanti e riconoscibili. Il muto rapporto di dialogo e di scontro del Dottor Octopus con le proprie estremità “serpentizzate” rappresenta un passo avanti nell’intera concezione cinematografica del Mostro e del Doppio. In confronto il Goblin del primo film, costretto a veicolare la natura del doppio attraverso i consueti specchi e allucinazioni, è preistoria.

(Il Nuovo FVG)

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