Gianni Amelio
Esiste un altro corpo nel cinema, un corpo non visibile, al di fuori del “corpo cinematografico” agente dello sviluppo narrativo. Dico il corpo deforme, “nato male”: riproducibile fittiziamente, non fotografabile. L’estrema miseria del corpo.
Nel film di Gianni Amelio “Le chiavi di casa”, storia di scoperta e accettazione, Gianni/Kim Rossi Stuart ritrova Paolo, il figlio handicappato adolescente che lui aveva rifiutato alla nascita, come incolpandolo della morte di parto della madre. A Paolo, com’è noto, dà corpo nel film il sedicenne Andrea Rossi che soffre di tetraparesi spastica. Il cinema è tutta questione di sguardo: nell’ospedale berlinese dove Paolo è sottoposto a esami, all’occhio di Gianni e al nostro si squaderna la visione di altri ricoverati, portatori di handicap fisici estremi: la galleria del corpo segreto, non mostrabile, del cinema. Certo, c’è anche la forza della sopravvivenza: il sorriso, l’aggancio degli occhi, l’offerta di un “touch”; ma nessuna mielosità consolatoria. A Gianni dice brutalmente Charlotte Rampling, madre di una ragazza costretta sulla sedia a rotelle: “Paolo è fortunato. Ha visto gli altri in ospedale?”.
E aggiunge: “si prepari a soffrire se vuole stargli vicino”. In un film che è la negazione di qualsiasi pietismo o effettismo sentimentale, il suo personaggio spara verità pesanti come pietre (quella della “vergogna” dei maschi davanti all’handicap irrita profondamente chi è maschio a sentirla - ma poi riflettendoci induce l’aspra consapevolezza di un esame di coscienza). Se Kim Rossi Stuart, attore altre volte limitato, offre qui la sua interpretazione più convincente, Charlotte Rampling è una vera maschera tragica indimenticabile.
Proprio in relazione al suo ancorarsi al corpo, all’irrevocabile dato esistente, il film di Amelio si basa su una riduzione all’immediatezza dell’esperienza. L’urgenza di un’esperienza come totalità, che risucchia ciò ch’è esterno; nel film la Storia e la società entrano in modo laterale: un allusivo poster delle rovine di Berlino nell’ospedale, una manifestazione guardata da Gianni e Paolo nelle immagini finali sui titoli di coda.
Gianni Amelio, che è sempre stato un regista complesso sotto un’apparente semplicità realista, qui opera una riduzione linguistica e stilistica all’essenziale, con largo uso della macchina a mano. L’istanza narrante è forte e personale - penso a dei momenti di affascinante “sospensione”, con la macchina da presa che rimane su Paolo solo e muto quando Gianni fugge via, ora spaventato alla vista di un prelievo di sangue, ora iroso dopo il rischiato incidente - ma non si dichiara come eleganza. In questo film Amelio raggiunge quello “sguardo pulito” di cui discuteva, in relazione a Rossellini, intervistato da Emanuela Martini in “Gianni Amelio: le regole e il gioco” (Lindau 1999).
“Le chiavi di casa” è lontano dall’alta costruzione mélo del suo capolavoro “Così ridevano”. Ma la costruzione melodrammatica sottesa a tutto il cinema di Amelio (che è sempre storia di padri e figli, reali o trasposti) qui esiste come forza e struttura profonda, non come macchina drammaturgica. Vedi come l’ellissi più stupefacente del film annulla un episodio cui nessun altro avrebbe rinunciato, per la sua fecondità di sviluppo in positivo o in negativo: intendo il non-episodio dell’incontro (mancato) con Kristin, la ragazzina sognata da Paolo che la conosce in fotografia.
Dopo che in auto Paolo ha quasi causato un incidente, l’inquadratura finale col pianto di Gianni, consolato dal ragazzo, è una conclusione aperta. Non è solo catarsi emotiva: la interpreto come consapevolezza di un dolore, e della terribilità del compito assunto. Dunque, messa in crisi dell’elemento di risoluzione rassicurante, di riconciliazione narrativa, che noi spettatori credevamo di trovare quando Gianni annuncia a Paolo che vivranno insieme. Esiste uno iato inevitabile fra il dolore e la sua soluzione drammaturgica - e in questo iato ha il coraggio di inserirsi il film.
(Il Nuovo FVG)
lunedì 7 gennaio 2008
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