martedì 8 gennaio 2008

Sogno di una notte di mezza estate

Michael Hoffman

Senza colpa del regista, il primo disappunto nel “Sogno di una notte di mezza estate” di Michael Hoffman viene dalla versione italiana, che vuol trasmettere l’impressione del verso shakespeariano in modo esteriore e kitsch con una specie di goffa prosa rimata: “Non vedrai più il mio viso, Lisandro e io lasceremo questo paradiso”.
Ma i problemi non stanno qui. Shakespeare al cinema si va ammalando della stessa malattia delle moderne messe in scena della lirica: uno spostamento delle coordinate culturali (l’“Anello” di Wagner nella rivoluzione industriale, “Tosca” fra i nazi...) che, nato come modo di riflettere sul testo e liberarne significati inediti, è diventato moda, artificio, (cattiva) maniera.
Il film di Hoffman sposta l’azione nell’Italia fine ‘800, trasformando Atene in un paese chiamato Monte Atena. Ciò non è giustificato dal testo, non è particolarmente compatibile, non lo illumina di nuovi significati. Kenneth Branagh (“Molto rumore per nulla” e, ancora ancora, “Amleto”) e Trevor Nunn (“La dodicesima notte”) si potevano permettere il moderno. Baz Luhrmann (“Romeo + Juliet”) se l’è conquistato con un bel lavoro cinematografico e sul testo. Ma la fragile aerea intelaiatura fra magico e umano del “Sogno” mal regge alla violenza di questa operazione estrinseca e meccanica.
In primo luogo essa confligge con la semplice evidenza del testo (il potere di Teseo “nostro illustre duce”, la crudele legge di Atene/a, la battuta “I miei cani sono tutti di razza spartana”). A Hoffman, anche sceneggiatore, basta mettere il testo in cornice moderna e sperare che il pubblico non s’accorga delle contraddizioni (cfr. invece certe soluzioni geniali elaborate dal citato “Romeo + Juliet” per accordare testo e immagine).
L’800 umano e razionalista della trascrizione si stende come una spessa vernice su tutto (anche sul mondo magico, dipinto in modo - amabilmente - “pompier” e mediterraneo). E’ interessante da questo punto di vista lo stupore prodotto sulle fate dalle macchine degli umani; Puck è affascinato dalla bicicletta, e quando Bottom (versione italiana, Chiappa) aziona il grammofono le fate si guardano attorno stupite, non capendo di dove proviene la musica. E’ come se alla meraviglia del mondo magico se ne contrapponesse una di segno opposto dei mortali. Il gioco di vertiginosi contrasti e passaggi fra alto e basso come fra umano e fatato del “Sogno” shakespeariano viene unificato, e con ciò appiattito, in un programma di assimilazione (che poi i trucchi non siano eccezionali, urta in un film che tanto aspira al realismo). Coerentemente, il bosco incantato non è inteso come luogo selvaggio; ci sono muretti, antiche scalinate, rovine. E si perde nel film l’elemento implicitamente inquietante del bosco - poiché il “Sogno” di Shakespeare si potrebbe ben definire “un horror possibile”. In questa chiave lo ha letto la sua migliore trasposizione cinematografica (mi spiace però di non conoscere direttamente quella animata con pupazzi di Jiri Trnka): il capolavoro di Max Reinhardt e William Dieterle “A Midsummer Night’s Dream” del 1935 (che certo Hoffman conosce. Nella bella scena suggestiva del sorgere del sole, lo strascico di Titania sembra una breve reminiscenza della gran sequenza musicale del ritirarsi delle ombre e dell’esercito magico in Reinhardt-Dieterle).
Morale, c’è nel film una freddezza che non arriva se non verso la fine a sciogliersi pienamente. Nonostante una prova d’attori dignitosa: Rupert Everett è un Oberon credibile anche se un po’ troppo “orgoglio gay”; Michelle Pfeiffer, molto truccata, un’accettabile Titania. Stanley Tucci è un Puck non molto impressivo (nel film citato di Reinhardt e Dieterle, Mickey Rooney come Puck era convenientemente diabolico!). L’ampliamento muto sulla vita privata di Bottom vellica il divismo di Kevin Kline: ma come per il resto del film, uno esce chiedendosi se il gioco servisse davvero a qualcosa.

(Il Nuovo FVG)

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