martedì 8 gennaio 2008

A Beautiful Mind

Ron Howard

La chiave (e l’importanza) dell’interessante “A Beautiful Mind” di Ron Howard sta nella parola ridefinizione. Se è ovvio che in qualsiasi narrazione il “dopo” contestualmente ri/crea il “prima” modificandone i termini, “A Beautiful Mind” porta sullo schermo questo principio con un’intelligente radicalità, che rende questo film il risultato migliore (assieme a “Fuoco assassino”) della solida carriera artigiana di Howard. Nota bene: è per questo, e non per cattiveria, che la presente recensione è quello che si dice uno “spoiler”, ossia rivela la sorpresa dello svolgimento: onde conviene che la legga solo chi ha già visto il film. Non si può parlare di “A Beautiful Mind” altrimenti.
Infatti - ecco qui una cosa che non dispiacerebbe al vecchio Borges - a film bell’e inoltrato veniamo a scoprire che diversi personaggi e fatti, che pensavamo d’aver visto “oggettivamente” narrati, sono allucinazioni del protagonista John Nash. Così l’intero blocco del “già visto” viene rimandato indietro nei meccanismi del processo interpretativo, e retrospettivamente ridefinito (succedeva qualcosa di simile, ma in una logica diversa, in un bel film recente - superiore a questo - che è “Memento” di Christopher Nolan).
Pertanto tutta la prima parte di “A Beautiful Mind” è una sorta di bozzolo, che deve andare a pezzi perché la seconda parte nasca, cambiando l’intero racconto di significato. Ed è anche interessante che un film biografico su un matematico verta fondamentalmente sulla follia: ovvero la non-matematica: dai numeri come arte e conoscenza, ai numeri come irrazionalità e insensatezza (i deliri di decifrazione di Nash). Peraltro ritroviamo il principio matematico se pensiamo alla decisione di Nash di trattare le allucinazioni come un problema logico.
Un approccio di questo tipo impone al film un rischioso spostamento di visuale, un (metaforico) cambio di messa a fuoco, che trasferisce quasi vertiginosamente la narrazione dall’esterno all’interno, dall’oggettivo al soggettivo, dalla matematica alla schizofrenia, dalla socialità al delirio. Qui l’apporto fondamentale è della sceneggiatura di Akiva Goldsman; ma l’efficacia con cui veniamo trascinati in questo “looping” logico spetta a Ron Howard, perché è questione di messa in scena. Quelli che noi spettatori avevamo preso per difetti, ingenuità, esagerazioni del film, vengono a rivelarsi come tasselli del mosaico. Talvolta perfino indizi, ben celati.
Un paio di esempi. Sembrava davvero un luogo comune cinematografico, da “tipo”, la caratterizzazione sopra le righe del disinibito compagno di stanza. Oppure quando Nash va a consegnare nel giardino della villa le buste coi codici russi decifrati: siccome lavora in America per il controspionaggio americano, tutta quella drammatizzazione da super-noir spionistico fa pensare semplicemente a una messa in scena cinematografica ingenuamente caricata. Però quando ci viene rivelato il carattere allucinatorio e delirante di tutto ciò, eccone giustificata l’assurdità. Morale: lo spettatore si accorge dell’inverosimiglianza, ma tende a ricondurla all’oggettività del racconto prendendola per un eccesso narrativo. Preferiamo pensare a un cattivo film piuttosto che a un’immagine falsa.
Va anche detto che, una volta cavato per così dire il coniglio dal cappello, il film gestisce con abilità l’ulteriore rapporto di Nash con le allucinazioni ormai riconosciute. Da un lato ricorre agli stilemi del cinema horror: vedi la bambina, tutto a un tratto inquietante, che a buon diritto andrà ricordata fra le bambine fantasma dello schermo. Ma in seguito è bizzarro e notevole il tipo di rapporto quasi “familiare” - pur entro l’antagonismo, la lotta per la sanità mentale - che Nash instaura con queste figure immaginarie. Sembra “Harvey” rivisto in salsa horror-mélo. Ed è una grande pagina barocca di cinema quella in cui Nash annuncia a una entità inesistente, sempre la bambina, che non le parlerà mai più - e lei piange in silenzio, commuovendo anche il protagonista, che accarezza l’aria dove c’è una testolina che non c’è.

(Il Nuovo FVG)

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