martedì 8 gennaio 2008

Le vite degli altri

Florian Henckel von Donnersmarck

Repubblica Democratica Tedesca nel 1984. Fra soli 5 anni cadrà il Muro, ma a tutti - oppressori e oppressi - la DDR sembra destinata a durare un’eternità. L’onnipotente polizia politica, la Stasi, tiene sotto controllo chiunque (su questo, merita leggere l’eccellente libro di Timothy Garton Ash “Il dossier”, edito da Mondatori). Il capitano della Stasi Wiesler (Ulrich Mühle) riceve dal suo superiore Grubitz l’ordine di sorvegliare e incastrare il drammaturgo Dreyman (Sebastian Koch). Questi non è un oppositore, ma la sua compagna, l’attrice Christa-Maria (Martina Gedeck, vista ne “Le particelle elementari”), piace al viceministro della cultura Hempf che vuole avere campo libero con lei. Così Wiesler piazza microspie nell’appartamento e un impianto di intercettazione nel solaio del palazzo - il bellissimo film tedesco “Le vite degli altri” di Florian Henckel von Donnersmarck possiede anche un elemento “procedural” - e si mette pazientemente all’ascolto.
È un “topos” classico nel cinema dell’ascolto e dell’intercettazione che si crei un rispecchiamento fra il sorvegliante e il sorvegliato. Anche qui, nel durissimo poliziotto si produce prima un’empatia, poi un incrinatura; infine, anche perché scandalizzato dai bassi fini dell’operazione, Wiesler inizia a proteggere di nascosto Dreyman (il quale intanto si è avvicinato agli oppositori e ha scritto un articolo clandestino) stilando rapporti falsi su quello che ascolta… In un film pieno di buone interpretazioni, giganteggia quella di Ulrich Mühle, dal viso impenetrabile, tutta giocata sugli occhi, ora gelidi ora dubbiosi ora - nello sconvolgente finale - pieni di lacrime.
Sul piano del linguaggio cinematografico (inquadrature, movimenti di macchina, montaggio) il film è decisamente tradizionale. Non per povertà (c’è un gusto figurativo notevole, dalla prostituta grassa che è puro Otto Dix a quel tetro bar di sera che certo è rievocativo, ma contiene un elemento astratto e metafisico). La semplicità di regia serve alla concentrazione; e consente un accorgimento che in un film di stile più mosso semplicemente non si noterebbe. Quando Wiesler esce dalla stazione di ascolto, senza celare il suo disprezzo per il subordinato porcino che gli dà il cambio, lo vediamo in un paio di inquadrature dal basso leggermente angolate: un buon modo di significare la fenditura che si è creata nel suo universo.
È interessante un particolare laterale. Il film si svolge nell’ambiente del teatro; ora, nella stazione di intercettazione in solaio, la pianta dell’appartamento di Dreyman disegnata col gesso sul pavimento a grandezza naturale richiama fortemente una scenografia teatrale. Questa suggestione resterebbe aleatoria se non accadesse più oltre che Wiesler, per “coprire” le conversazioni compromettenti di Dreyman, s’inventi nei rapporti che lo scrittore sta lavorando a un’opera teatrale su Lenin, riferendone gli atti. Ovvero: il capitano diventa drammaturgo! L’inversione fra lavoro teatrale e lavoro poliziesco (accennata nella scena iniziale della rappresentazione, quando Wiesler usa gli occhialetti da teatro per spiare) si completa.
Per “Le vite degli altri” si può ben usare la definizione di “thriller politico”. Thriller, per il forte elemento di suspense che distilla in modo hitchcockiano. Politico, come studio sulla psicologia del totalitarismo. Dreyman e la sua amante si muovono, la seconda ancor più del primo, nella zona grigia del compromesso: il regime lavora sulle anime prima che sui corpi. Ma il sorprendente finale elabora il principio umanista sotteso al film. È vero che il totalitarismo tende (per la sua promessa di potere) ad attrarre a sé gli uomini intrinsecamente malvagi (qui rappresentati dai personaggi di Grubitz e Hempf). Ma non è vero il contrario, cioè che solo uomini malvagi possano lavorare per esso. Seppure rari, possono esistere (o rivelarsi a propria stessa sorpresa) i giusti: nel film assistiamo a una sorta di “Schindler’s List” del comunismo.

(Il Nuovo FVG)

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