Joel ed Ethan Coen
Ambientato in un’America 1949 impaurita per l’atomica russa e i dischi volanti, “L’uomo che non c’era” (come sempre, scritto da Joel ed Ethan Coen, diretto da Joel) è un purissimo rifacimento dei grandi film noir degli anni ’40, sia sul piano cinematografico che su quello della scrittura (Cain, Chandler). Su questo i Coen innestano superbamente il loro stile: la loro macchina da presa resta indubitabilmente “coeniana” ma allo stesso tempo riprende, come estremizzandoli, i codici del noir classico (qui va reso omaggio alla meravigliosa fotografia in b/n di Roger Deakins, al suo memorabile lavoro sull’illuminazione).
Molti noir usavano - come qui - la voce narrante, per sottolineare l’ineluttabilità del racconto. Perché già ineluttabile di per sé è il narrato; tanto più lo è se una voce over ci dice che quello che stiamo vedendo “è già accaduto”. Può essere anche la voce di un morto a raccontare, come in “Viale del tramonto” di Wilder. Ma che differenza fa se a ricordare è un morto o un uomo spacciato, un morto che cammina, come in “Detour” di Ulmer, schiacciato da una sorte così feroce che sembra possedere una maligna volontà propria? E’ proprio questa sorte ad accanirsi contro “l’uomo che non c’era”, il barbiere Ed Crane (Billy Bob Thornton), cui tutto si rovescia in disastro, il suo misero sogno - un lavasecco! - diventa rovina per sé e gli altri, il suo povero ricatto diventa omicidio, e anche la ragazza per cui aveva provato qualcosa diventa strumento di una beffa del destino.
Al centro del precedente magnifico film dei Coen, l’omerico “Fratello, dove sei?” (misconosciuto, questo! La commedia, si sa... poi c’è anche della musica...), stava un “uom di multiforme ingegno” cui parodisticamente non ne va dritta una, ma la sua verbosa fiducia in se stesso non deflette. Al centro de “L’uomo che non c’era” sta una specie di uomo invisibile (il film è anche una riflessione sulla perdita dell’identità) che guarda crollare il proprio universo attraverso una maschera impassibile, dietro la quale c’è un dolore esistenziale addirittura beckettiano. Sì, Beckett può ben essere uno degli autori di riferimento dei non incolti fratelli Coen; ma soprattutto sembra di sentir risuonare attraverso le pagine del film la voce del T.S. Eliot de “Gli uomini vuoti”.
Gigantesco e ricchissimo sotto la tessitura noir, “L’uomo che non c’era” è un film sulla morte; la stessa ossessione del barbiere sui capelli che continuano a crescere (che dà imprevisto luogo a un alto discorso tragico, “Raccoglierò questi capelli e li butterò nel secchio - e così si mischieranno all’immondizia”) imposta una potente metafora barocca sul morire. Ma è altresì un film sulla conoscenza, grande tema dei Coen. Dipinge la perdita del senso in un mondo pietrificato dove tutti - con visi che ricordano le fotografie di Diane Arbus - vanno in giro chiacchierando senza significato. Descrive in toni dolorosi la mancanza, nelle parole del barbiere, di una “via d’uscita”. Alla fine i fili filosofici convergono: una via d’uscita e l’ipotesi di un senso si trovano solo nel grande nero della morte.
E, in un’opera dove “tout se tient”, viene recuperato in questo senso anche l’elemento dei dischi volanti, un tema ritornante nella narrazione: i giornali; l’allucinante discorso della vedova; nella scena dell’incidente un coprimozzo che corre rotolando sul terreno diventa un disco volante (stessa invenzione all’inverso collo specchietto del medico); il sogno del protagonista in prigione... Il grande Disco Volante che ci porta altrove è la morte.
Ma rimane un dubbio tragico: pensiamo alla gelida immobilità da acquario del sogno di Crane in ospedale quando si vede sul divano con la moglie morta (“Doris...” - “No! Non dire niente. Sto bene”): e se fosse quello l’aldilà?
(Il Nuovo FVG)
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