mercoledì 9 gennaio 2008

Psycho

Gus Van Sant

Un remake, anche il più estemporaneo e scassato, è sempre una lettura critica del film originale.
“Psycho” di Gus Van Sant si situa a parte; più vicino all’arte figurativa che alla narratività (non a caso il regista si è richiamato ad Andy Warhol), ri/fa il film di Hitchcock del 1960 come simulacro, lo duplica in un film/copia, che vuol essere riproduzione e originale allo stesso tempo. Dopo l’inizio eguale ma non identico, ripercorre l’opera originaria (quasi) inquadratura per inquadratura. La sceneggiatura di Joseph Stefano è la stessa (cambiamenti minimi), la musica è quella originale di Bernard Herrmann, ritornano perfino, colorati in verdino, i titoli di testa di Saul Bass. C’è il colore, ma hanno colori anni sessanta, lucidi e un po’ sgranati, gli esterni nella fotografia di Christopher Doyle. Lo scambio dei volti - Anne Heche per Janet Leigh, Julianne Moore per Vera Miles, Viggo Mortensen per John Gavin, William H. Macy per Martin Balsam, Vince Vaughn per Anthony Perkins - sottolinea l’aspetto di duplicazione. L’idea era forse interessante; non lo sapremo mai, perché lasciando il progetto nelle mani dell’ex talento Gus Van Sant la Universal lo ha assassinato; probabilmente, però, sarebbe crollato comunque. Il nuovo/vecchio “Psycho” è un film inutile nella concezione e difettoso nella realizzazione.
L’aspetto più interessante del film è di situarsi in una zona temporale ambigua, a metà fra gli anni sessanta e i nostri in cui è ambientato. Marion Crane ha un computer in ufficio, sua sorella Lila va in giro con il walkman; Marion ruba 400.000 dollari anziché 40.000 (per curiosità, una notte al Bates Motel ora costa 36 dollari e 50, nell’originale ne bastavano 10). Ma più entriamo nei luoghi sacri del film, più il tempo sembra essersi fermato al 1960. Ciò crea un ambiente temporale astratto, assolutamente irrealistico, non privo di fascino (qui si può pensare a David Lynch).
Nello spazio fra il visivo e il sonoro Van Sant gioca la sua libertà. Il sonoro è obbligato, incanalato dalla sceneggiatura di Joseph Stefano; il visivo gli apre uno spazio “muto” dove può inserire interventi propri, piccoli slittamenti (Norman che si masturba spiando Marion, una mosca sul panino in dettaglio, le visioni che lampeggiano nella mente di Arbogast mentre muore, la volgare strizzata d’occhio fra Norman e Lila, il goffo prolungamento della scena della rivelazione). Ma è un gioco incerto e ondivago, che non crea una reale dialettica con le sequenze strettamente duplicate: onde in conclusione il film pare una brutta coloritura elettronica. Che poi è lo scopo della Universal, pur riconoscendo l’onestà del regista: vendere biglietti ai ragazzotti americani che mai andrebbero a vedere una riedizione dello “Psycho” originale in b/n.
Il folgorante raccordo hitchcockiano fra lo scarico della doccia e la pupilla morta di Marion, qui malamente amplificato in un movimento roteante artificioso, esemplifica la superfluità dell’operazione. Se pure essa avesse avuto un senso (ed è difficile), l’avrebbero affondata le incertezze della realizzazione e la povertà del “casting”. Questo “Psycho” è un trionfo di recitazione modesta, dai comprimari in su. Mentre Janet Leigh nel 1960 portava nella sua parte un dolore autentico (c’è qualcosa di straziante nella prima scena), Anne Heche sembra un topo (ed ha anche lo stesso sex appeal). Sa esprimere delle emozioni quand’è sola, in dialogo ha una recitazione tutta mossette e frufrù. Il peggiore è Vince Vaughn, un Norman Bates banalissimo, più prossimo a un Jack Nicholson rifatto male che ad Anthony Perkins. L’unico davvero bravo, che non fa rimpiangere l’originale hitchcockiano, è William H. Macy nella parte di Arbogast.
Alla fine Gus Van Sant come se volesse sfogarsi dopo tanto silenzio ci regala una lunga sequenza muta (paesaggistica, non male) sui titoli di coda. Qui leggiamo i ringraziamenti a John Woo “per il suo coltello da cucina” - il che ci fa pensare: ecco un altro, con Lynch, che avrebbe fatto meglio il remake!

(Il Nuovo FVG)

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