mercoledì 9 gennaio 2008

Il cielo in una stanza

Carlo Vanzina

Con la sua dislocazione temporale semimagica tranquillamente accettata, “Il cielo in una stanza” dei fratelli Vanzina ha un punto di partenza interessante, sicuro, vagamente poetico. Siamo nella Roma di oggi; un diciassettenne litiga col padre. Vicendevoli accuse di essere un disgraziato-incosciente-irresponsabile e di essere un vecchio arido senza comprensione. Ed ecco che come per magia il figlio (Gabriele Mainetti) si ritrova nel 1966 a fianco di suo padre, ora suo coetaneo (Elio Germano, mentre prima era un cameo di Ricky Tognazzi). E il padre gli fa da cicerone in tuffo nel passato, una visita guidata negli anni sessanta: vivono insieme, frequentano il Liceo Mamiani, vanno al Piper; vivendogli a fianco “com’era alla sua età”, il figlio arriva a conoscere il padre; è un ritrovarsi fra i due.
Tutto ciò senza giustificazioni diegetiche tipo macchina del tempo costruita in cantina. Accade e viene semplicemente accettato (tutti si accontentano di spiegazioni assai vaghe per il nuovo venuto e la sua felpa anni ’90). Questo dare per scontato l’assunto innaturale conferisce una certa grazia e levità al film. Il tempo passa placidamente, dall’autunno all’inverno all’estate, senza che nessuno si chieda niente. Quanto più “Il cielo in una stanza” accumula le marche storiche (Kerouac letto nella vecchia edizione Medusa e via dicendo), tanto più l’ambiguità logica di partenza lo mantiene in una dolce irrealtà. Cosicché risulta quello che in realtà è: un viaggio nella memoria.
Questa concezione è indubbiamente il lato positivo del film. Quello negativo, largamente preponderante, è che i Vanzina la realizzano con faciloneria tutta romana (la tabe del nostro cinema). “Il cielo in una stanza” parte come filmaccio insopportabile; poi migliora, perché diventa semplicemente noioso. La linea guida di quello che poteva diventare un viaggio incantato nel passato di una generazione è il luogo comune. Nessuna originalità, poco calore, solo “déja-vu”. Ne risulta una commediola giovanilistica anni sessanta in salsa romanesca, con una serie di canzoni d’epoca a fare da aggancio alla nostalgia. Piacevole risentirle, intendiamoci (ah, l’accento pseudoinglese dei Rokes!); ma già lo fanno abbondantemente in televisione Fabio Fazio, Paolo Limiti eccetera (bella scoperta: “Il cielo in una stanza” nasce proprio di qui - è un tentativo di trasferimento cinematografico della moda della tv della nostalgia).
Sul filo di una prevedibilità mai smentita, a partire dal tocco patetico (i sogni di calciatore di un amico infranti da un incidente che lo riduce sulla sedia a rotelle), assistiamo alle avventure di quattro amici: il giovane in gita temporale, il suo padre/coetaneo/ospite, due compagni, uno povero e l’altro ricco (Francesco Venditti e Alessandro Cianflone). Sono interpretazioni senza infamia né lode; il migliore è probabilmente Mainetti, il peggiore è il burattinesco Cianflone; ma nel cast spicca soprattutto il veterano Maurizio Mattioli. Storie di amori studenteschi, urgenze (e delusioni) sessuali, un po’ di malinconia e un po’ di comicità; però, a livello di ragazzotti assatanati che spiano dal buco della serratura le tette della cameriera, lasciatemi preferire i film di Pierino con Alvaro Vitali: sono più coerenti, e indubbiamente più divertenti.
Qualche episodio funziona, come la serata con una simpaticissima prostituta napoletana (la prorompente Tosca D’Aquino) con ovvio ritorno in casa anzitempo dei genitori. Altri sono stupidaggini assolute (la nevicata). Il più resta in una specie di limbo. Morale, una buona idea bruciata in una realizzazione mancata. Direi che la colonna sonora del film mette in bocca di suo, involontariamente, il commento critico: gli spettatori escono cantando come i Rokes “Ma che colpa abbiamo noi”.

(Il Nuovo FVG)

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