mercoledì 9 gennaio 2008

Elephant

Gus Van Sant

Cattive notizie dalla Torre di Babele.
“Elephant” - scritto e diretto da Gus Van Sant - parla di una di quelle stragi compiute da studenti che funestano le scuole americane. Massacri di cui si può sempre dare una grezza spiegazione ideologica alla Michael Moore (“Bowling a Columbine”); ma lo splendido “Elephant” non da risposte facili: addita una dimensione più larga, quasi imponderabile e stupefatta, del dolore e del male. Ossia dà una risposta tragica.
Il senso del film è già nell’apertura: un’auto che sbanda guidata da un ubriaco rompe lo specchietto retrovisore di una macchina parcheggiata. Normale amministrazione - ma così entra nel film quella violenza vacua e quotidiana che lo modella: la mancanza generale di responsabilità: la gratuità del male. Vedi l’arrivo delle armi ordinate per posta dai due teenager. Ammirando il modernissimo fucile: “che meraviglia!”. Ed è vero: quella magnifica arma è effettivamente una meraviglia. Però a trattenerci dall’usarla come nel videogioco omicida visto nel film esiste il senso morale della responsabilità: ciò che manca al mondo di “Elephant”. Un degrado dell’esistenza, una vuotezza delle cose. Bresson direbbe: il diavolo probabilmente. (Il diavolo non è una presenza, è un’assenza, un vuoto).
Va da sé: un paese in cui due stronzetti possono tranquillamente acquistare armi da guerra per posta non può stupirsi di un massacro ogni tanto. Non è che in “Elephant” non esista il dato sociologico; anzi è vivamente presente. Vedi la nullità degli adulti, totalmente incapaci di rappresentare il loro ruolo (più ancora che col guidare ubriaco, il padre imbecille colpisce quando di fronte alla tragedia sa solo belare “Cristo santo! Incredibile! ...Mio Dio!”). Ma il film va oltre. Evita anche l’ovvietà di fare degli assassini due neonazi; il documentario sul nazismo visto in tv affascina solo il membro inferiore della coppia, l’ignorante Eric - criticato da Alex, che è l’egemone, capace di citare Shakespeare (“Non ho mai visto un giorno così brutto e così bello”: “Macbeth”) mentre compie il massacro.
In una scena di grande e dolorosa bellezza i due, prima della spedizione omicida-suicida, si baciano sotto la doccia, un bacio omosessuale, come sperimentale (“Io non ho mai baciato nessuno, e tu?”): è una sessualità strozzata e recisa, di quella freddezza vuota che avvolge tutti i comportamenti, e torna nel massacro, quasi surreale e onirico (la figura del negro che si aggira per la scuola), fino all’assurda “conta” su chi uccidere, su cui un carrello indietro chiude il film.
Con altrettanta dolorosa bellezza Van Sant segue in steadycam la quotidianità degli studenti - nominati da didascalie - prima della strage (da citare a inizio film il potente piano sequenza sulle note di Beethoven che mostra il percorso di Elias nella scuola). Crea un reticolo di affascinanti incroci temporali: il tempo del racconto ritorna su se stesso e vediamo più volte la stessa scena da diverse linee narrative. La sua macchina da presa è fredda, chirurgica; il suo sguardo è oggettivo; le descrizioni degli studenti (non professionisti: i “credits” mostrano che ognuno mantiene il suo nome proprio) sono attente e distaccate.
E’ terribile la bolla d’aria entro cui ciascuno attende alle sue occupazioni. Per questo sopra menzionavo la Torre di Babele. Ognuno parla il linguaggio del suo essere; non c’è un sottofondo comune - non dico una cultura, dico una moralità (T.S. Eliot lo aveva previsto). La cultura “liberal” al fondo del suo declino è una sagra della parola: Acadia abbandona un amico trovato in lacrime per non mancare al dibattito sulle minoranze sessuali. Il quale poi serve a riprodurre il discorso implicito del film: come si fa a capire com’è uno dentro? La perdita dei linguaggi.
Gus Van Sant ha avuto un inizio esplosivo in anni ormai lontani e poi è decaduto. Ma “Elephant” è sicuramente degno dei tempi di “Drugstore Cowboy” e “Belli e dannati”. Dunque festeggiamo non solo un grande film ma un autore ritrovato.

(Il Nuovo FVG)

Nessun commento: